di Martina Bianchini*
In questi giorni si sta vivendo una pandemia globale causata dal COVID19, che purtroppo vede il nostro Paese colpito in maniera particolare.

Una tra le ricercatrici impegnate nella lotta contro il coronavirus è Francesca Colavita, che insieme alle sue colleghe è riuscita ad isolare il virus rendendo possibili numerosi studi volti a debellare nella maniera più veloce l’epidemia.
Francesca Colavita è una ragazza di 31 anni, nata a Campobasso e che ora, dopo un lungo e difficile percorso di studi, lavora all’ospedale “Spallanzani” di Roma.
La fortuna di conoscere Francesca mi ha dato la possibilità di farle un’intervista per la “La Siringa”*.
-Quando hai deciso che saresti diventata una virologa?
Mentre frequentavo la facoltà di biologia alla Sapienza di Roma, la passione è diventata forte, soprattutto durante il corso di virologia, che mi ha fatto particolarmente appassionare al mondo dei virus e al rapporto a volte molto complesso che hanno con chi lo “ospita” (in questo caso l’uomo).
-Quale percorso formativo hai fatto per arrivare al tuo lavoro?
Ho frequentato il Liceo classico “Mario Pagano” a Campobasso, poi, essendomi appassionata al mondo scientifico di ricerca e di laboratorio, mi sono iscritta alla facoltà di biologia a La Sapienza di Roma, dove ho seguito i corsi di biologia applicata nella ricerca biomedica sia durante la triennale che durante la specialistica.
La tesi triennale riguardava il virus HHV8 (il virus del sarcoma di Kaposi), mentre la tesi della specialistica l’ho dedicata al virus della mononucleosi infettiva (Epstein-Barr) e ai meccanismi di interazione tra il virus stesso e il processo dell’autofagia della cellula ospite.
Dopo essermi laureata ho svolto un anno di tirocinio presso il mio laboratorio di tesi, in quanto la mia era una tesi sperimentale.
Terminato il tirocinio, sono entrata, tramite un concorso, alla scuola di specializzazione in microbiologia e virologia (scuola sanitaria aperta anche ai “non medici”), che ho frequentato per quattro anni. Durante il primo anno di specializzazione, ho fatto un colloquio presso l’ospedale Spallanzani di Roma a seguito del quale ho iniziato a lavorare presso quella struttura sanitaria con dei contratti di collaborazione nel laboratorio di virologia e biosicurezza. In questi sei anni ormai allo Spallanzani, mi sono specializzata nei cosiddetti “virus emergenti” e “ad alta contagiosità”, ovvero quei virus con il più alto rischio per l’individuo e per la comunità, occupandomi tra gli altri anche del virus Ebola. In occasione dell’epidemia del 2014-2016 causata da questo virus ho fatto molte missioni in Africa (Sierra Leone e Liberia) per attività di diagnostica e poi di ricerca vivendo un’esperienza importantissima ed unica per la mia formazione professionale e personale.
Dopo essermi specializzata con una tesi sperimentale che raccoglieva i risultati ottenuti durante le attività di studio condotte in Africa sul virus Ebola e la risposta immunitaria dei pazienti con questa infezione, ho partecipato a diversi concorsi a tempo determinato e indeterminato per Dirigente Biologo e sono risultata idonea nella sede di Campobasso. Questo ha permesso allo Spallanzani di richiedere il passaggio dell’assunzione come stabilizzazione presso l’Istituto di Roma presso cui già lavoravo. Quindi, diciamo che, contrariamente da quanto riportato ultimamente dai mezzi di informazione, le pratiche per la mia assunzione non sono collegate alla vicenda del coronavirus, ma erano già in corso da tempo, in quanto già in graduatoria per un concorso.
-Di cosa ti occupi precisamente?
Mi occupo, come già accennato, dei “virus ad alto rischio” o “ad alta contagiosità”, e di quelli poco diffusi da noi al momento, come ad esempio, quelli tropicali (Dengue, Chikungunya, Zika, Lassa, Ebola). Mi occupo della parte diagnostica di routine per l’ospedale e per i centri che fanno riferimento al nostro laboratorio, in particolare della sierologia (studiando gli anticorpi dei pazienti) e della parte di ricerca strettamente collegata alle attività diagnostiche e cliniche (lavorando anche con i virus vivi nel laboratorio di biosicurezza). Tra le attività di ricerca, siamo concentrate sulla risposta immunitaria alle infezioni, sui meccanismi di trasmissione ed infezione di tali virus, e grazie anche alla collaborazione con molti altri centri di ricerca europei, sullo sviluppo e sulla validazione di nuovi test diagnostici utili per identificare questi nuovi o poco conosciuti virus.
-Cosa significa esattamente che un virus è isolato?
Isolare un virus significa averlo in toto, cioè avere tutto il virus vivo, che è quindi in grado di crescere e replicare, così da avere le quantità di virus necessarie per fare studi e ricerche ad esempio sul suo genoma, sui meccanismi di infezione e patogenesi sia a scopo epidemiologico che per creare vaccini e terapie, e per sviluppare test diagnostici specifici.
Infatti, soprattutto in caso di virus ancora sconosciuti, avere il virus intero permette di sviluppare test diagnostici, ad esempio con lo scopo di cercare gli anticorpi di un paziente.
L’isolamento di un virus si ottiene aggiungendo il campione del paziente (nel caso del coronavirus, il tampone naso- faringeo) sulle linee cellulari coltivate in laboratorio per farlo crescere. La crescita del virus si attesta osservando gli effetti che la replicazione del virus ha su di esse (il SARS-CoV-2 porta alla morte cellulare).
-Come siete arrivate all’isolamento del coronavirus?
L’isolamento di un virus è una tecnica di virologia classica, che pochi laboratori effettuano a causa della mancanza di infrastrutture e di esperienza in questo campo. Lo Spallanzani, ad esempio, ha dei laboratori di biosicurezza fino al IV livello, che è quello più alto, e quindi il SARS-CoV-2 non è il primo virus “pericoloso” che è stato isolato, studiato e affrontato presso il nostro laboratorio.
Il coronavirus si lavora al III livello di sicurezza, con protezioni sia individuali indossate dall’operatore (mascherine, occhiali, tute e guanti), sia con caratteristiche di sicurezza per ambiente esterno (con infrastrutture sofisticate dedicate alla lavorazione di questo tipo di virus).
Per l’isolamento di questo nuovo virus e in generale per la sua diagnosi, ci stavamo preparando da quando è scoppiata l’epidemia in Cina. Tutto il laboratorio ha fatto un grande lavoro. All’arrivo dei primi pazienti, eravamo subito pronte a mettere su l’isolamento che sapevamo essere la cosa più urgente da fare, e dopo le notizie della diffusione dei casi in Cina ho iniziato a preparare le diverse linee cellulari e i reagenti necessari, e a studiare i possibili protocolli da applicare anche sulla base delle esperienze precedenti con altri virus che abbiamo affrontato. Fortunatamente il lavoro e l’impegno ha avuto successo, soprattutto con un risultato velocissimo; infatti, dopo quasi 24 ore abbiamo visto la crescita del virus sulle cellule, che poi abbiamo confermato con altre tecniche di laboratorio prima di dare notizia alla comunità scientifica.
-Questa scoperta servirà per la ricerca di un vaccino?
Sicuramente l’isolamento del virus è il primo passo volto a conoscerlo meglio e quindi a mettere a punto le giuste misure per batterlo, tra cui il suo vaccino.
-Cosa pensi dell’allarmismo iniziale?
Inizialmente anche io pensavo che fosse eccessivo in quanto la situazione era abbastanza sotto controllo in Italia, non ci aspettavamo questa evoluzione; ora credo che sia molto importante bloccare la trasmissione esplosiva che stiamo vedendo in attesa che terapie e vaccini siano pronti. Quindi è importante rimanere a casa e ridurre i contatti. Bisogna essere molto attenti, perché la malattia causata da questo nuovo coronavirus (definita Covid-19, dall’inglese “coronavirus infectious disease”) è pericolosa principalmente per determinati soggetti che quindi devono poter avere la giusta cura negli ospedali. Avere tanti casi nello stesso arco di tempo rende difficile la gestione dei pazienti nelle terapie intensive, con l’intasamento degli ospedali e il rischio di un collasso del sistema sanitario nazionale a tutti i livelli.
-Quando hai deciso di diventare virologa, avresti mai pensato di riuscire a fare una scoperta del genere?
No, non me lo aspettavo, ma ho solo svolto con passione il lavoro che amo. Ciò che realmente non mi aspettavo sono state tutte le opportunità che mi ha offerto questo lavoro. Per questo devo ringraziare le 4 persone che mi hanno guidato e dato fiducia in questi 6 anni, la dottoressa Castilletti, il dottor Di Caro, la dottoressa Capobianchi, e il dottor Ippolito, e tutte le colleghe e colleghi del laboratorio con cui ho l’onore di lavorare e crescere.
-Come ci si sente ad essere sotto le luci della ribalta per una scoperta di così grande importanza?
Non essendo abituata alle luci mediatiche per me è stato uno “shock”, in quanto non mi aspettavo e non volevo essere al centro dell’attenzione poiché sono una persona discreta a cui non piace apparire. Quello che ho fatto è solo il mio lavoro, ed è un pezzo di un puzzle che si costruisce in laboratorio con il lavoro di squadra, dai biologi ai tecnici di laboratorio, a tutto il personale che ci supporta nelle varie attività. La cosa più importante per me è lavorare serenamente con tutto il team, che sta facendo tutto il possibile durante l’epidemia con sacrificio e dedizione come molti altri operatori sanitari in Italia e nel resto del mondo.
-Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Il mio prossimo obiettivo è quello di lavorare ancora meglio di quanto ho fatto in questi anni, nella speranza che questa epidemia si risolva velocemente e nel migliore dei modi.
Grazie mille per il vostro interesse e attenzione nei miei confronti, sono lusingata. Auguro a tutti voi tanta fortuna per il futuro e di poter fare ciò che amate con serenità e passione.
La Siringa e Giornalisti Nell’Erba ringraziano Francesca Colavita per il tempo che ci ha dedicato in questi giorni così difficili.
I ricercatori, i medici e gli infermieri hanno fatto e stanno facendo tutto il possibile, ma ora tocca anche a noi.
* redattrice de La Siringa, giornale storico del liceo G. Alessi di Perugia, di cui frequenta il III anno
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