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Il Summit delle grande aziende ha funzionato meglio di quello dei politici. A New York, nonostante il monito di Ba Ki-moon ai leader mondiali a “mettere le mani sul tavolo” e il successo della marcia globale People’s Climate che ha tenuto sotto scacco la città, i rappresentanti dei governi di tanti paesi hanno rilasciato dichiarazioni apparentemente più incisive del solito, ma non tali da  far sperare in soluzioni decisive a Parigi 2015. Un esempio? Le promesse di contribuire in modo significativo al Fondo Verde delle Nazioni Unite per aiutare i paesi poveri ad adattarsi ai cambiamenti climatici (vedi il nostro Renzi). Sono promesse che si ripetono da anni, dal 2009 di Copenaghen quando si disse che doveva contare su 100 miliardi di dollari solo dagli USA. Fino ad una settimana fa c’erano solo 55 milioni, non miliardi. Oggi le promesse totali (da Francia, Scizzera, Danimarca, Corea, Norvegia, Germania ecc) sono ancora promesse, ed ammontano a circa 2,3 miliardi, “appena un po’” meno dei 100 annunciati.

Un segnale positivo invece arriva dal summit sul clima da parte delle più grandi aziende del mondo, le quali, riunite, promettono maggiore sostegno e investimento nelle rinnovabili, catene di approvvigionamento più sostenibili, nuovi sforzi per fermare la distruzione delle foreste tropicali. Il 23, giorno del Summit, c’erano i CEO di Kellog, L’Oréal, Nestlé, Ikea, Mc Donald, Enel, Saudi Aramco, Unilever, ed “hanno giocato un ruolo più importante rispetto a qualsiasi raduno fatto finora, tant’è che più di una organizzazione ambientalista si è detta ottimista sul fatto che almeno alcune di queste aziende avrebbero raggiunto obiettivi di sostenibilità, pur avvertendo che l’azione aziendale comunque non potrà essere sufficiente senza passaggi più forti da parte dei governi” (parola di Guardian).

Il climate change tocca le loro tasche, oltre che il cuore e il portafogli dei loro clienti. Secondo le stime di Oxfam, i prezzi di alcuni prodotti, i Corn Flakes della Kellogg o i cereali di General Mills, potrebbero aumentare fino al 44% nei prossimi 15 anni a causa dei fenomeni di cambiamento climatico. Senza contare le perdite in termini di denaro che già hanno subito le grandi sorelle del cibo per colpa del climate change.

Quaranta di loro, infatti, martedi hanno firmato una dichiarazione d’impegno a contribuire a ridurre la deforestazione tropicale a metà entro il 2020 e fermarla del tutto entro il 2030. La dichiarazione di martedì sulle foreste è stata approvata da 32 governi,  da numerosi gruppi di difesa e da organizzazioni che rappresentano le persone indigene. Il colosso americano Cargill è andato oltre, estendendo un precedente impegno no-deforestazione che aveva fatto sull’olio di palma e di soia per coprire ogni merce di cui l’azienda si occupa.

I principali trasformatori di olio di palma indonesiano, tra cui Cargill appunto, hanno rilasciato una dichiarazione separata in cui si impegnano ad un giro di vite sulla deforestazione, chiedendo al governo indonesiano di adottare leggi più forti. Heroes Foresta, un gruppo ambientalista, chiamato la dichiarazione “un momento di svolta nella storia di Indonesia e l’agricoltura globale. Non dovremmo sottovalutare il significato di ciò che sta accadendo“.

Unilever, leader nel tentativo di rendere sostenibile il business dell’olio di Palma (definizione del Guardian), ha iniziato da tempo l’azione, diversi anni fa, dopo essere stato preso di mira da  Greenpeace.  Paul Polman, CEO di Unilever, che possiede marchi come Algida, Coccolino, Ben & Jerry gelato, Dove, Lipton, Calvé, Hellmann, ha promesso che sarà in grado di tracciare tutto il suo olio di palma da fonti note e certificate entro la fine di quest’anno.

In un altro impegno preso martedì, è quello di cinque grandi aziende di refrigerazione che hanno intenzione di  formare una coalizione globale per cercare miglioramenti sostenibilità per gli enormi frigoriferi utilizzati nei negozi di alimentari, nelle catene di fast food e simili.

In un’intervista a New York, Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, ha detto che il suo gruppo e altri sono pronti a verificare la realizzazione delle promesse fatte dalle grandi aziende questa settimana.

Naidoo ha dichiarato di ritenere i leader di alcune società sinceri nel voler affrontare il riscaldamento globale,  ed ha individuato nel capo della Unilever, Paul Polman, il punto di rifermento in questo processo. Ma ha aggiunto che gli sforzi delle grandi multinazionali non possono andare lontano senza un’azione forte da parte dei governi. “Non possiamo dipendere solo dalla buona volontà dei leader aziendali”, ha dichiarato Naidoo. “La situazione è ormai troppo urgente” (fonti New York Times, The Guardian)

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giornalista professionista, è direttore responsabile di Giornalisti nell'Erba, componente dell'ufficio di presidenza FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e membro Comitato Scientifico per CNES UNESCO Agenda 2030. Presidente de Il Refuso a.p.s.. In precedenza ha lavorato come giudiziarista per Paese Sera, La Gazzetta e L'Indipendente. Insieme a Gaetano Savatteri ha scritto Premiata ditta servizi segreti (Arbor, 1994). Collabora con La Stampa.

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