Glasgow potrebbe chiudersi con qualche risultato che fa ben sperare, potrebbe forse persino stupirci (come è accaduto due giorni fa, quando abbiamo saputo che l’irriducibile Polonia, insieme ad altre quasi 190 nazioni, ha firmato per lo stop al carbone o, come in queste ore in cui si vocifera che il calcolo complessivo degli impegni di riduzione presi dai paesi partecipanti porterebbe ad un risultato già migliore di quello di prima della COP26). Potrebbe anche rimandare decisioni, potrebbe far slittare negoziati, per evitare accordi al ribasso. Ma alla fine come sempre si titolerà con evviva oppure con la consueta delusione. Nero o bianco, un titolo andrà pur fatto. Anche se ha comunque poco senso: chi pretende che si risolva l’emergenza climatica in due settimane, sarà di sicuro deluso. E’ impossibile. Si può procedere più o meno speditamente, più o meno con convinzione in una direzione. Questo sarà il risultato da analizzare, e non sempre è facile farlo. Soprattutto quando si punta solo a risultati a breve termine, o quando non si conoscono alcuni retroscena anche tecnologici, o quando il punto di vista non è globale e “giusto”, ma nazionale o settoriale e con qualche interesse particolare, il rischio di cadere in trabocchetti è più facile.
Non a caso, tanto per dire, uno dei nodi cruciali ancora non sciolto per restare davvero entro 1,5° di surriscaldamento globale al 2100 (siamo già sopra 1°) è quello della trasparenza nei conteggi delle emissioni di gas climalteranti. I paesi hanno portato i loro piani di riduzione delle emissioni fino al “net zero”, previsto prima o dopo. Prima è molto molto meglio di dopo, questo vien da sé. Ma anche il calcolo è fondamentale: deve esser fatto allo stesso modo da tutti. E di “trucchetti” leciti fino ad oggi ne sono stati inventati tanti, proprio perché non c’era regola condivisa.
Esiste, come sappiamo, un mercato del carbonio: chi vende e chi compra crediti per emettere. Un mercato che va regolamentato a livello globale in modo che si evitino conteggi fatti con criteri diversi o anche doppi (per chi vende e per chi compra). Perché poi l’atmosfera è di tutti, non esistono confini, così come non ne esistono per le catastrofi climatiche.
A Glasgow la questione è all’ordine del giorno e sarebbe un successo se si arrivasse ad un risultato equo, solido, di ampia gittata e anche almeno un pochino “vincolante”. Che si scrivessero, insomma, regole giuste ed efficaci che valgano per tutti e che debbano essere rispettate. Niente più trucchi, insomma.
Come niente trucchi anche sulle scelte strategiche. Ho un timore, ad esempio, ripensando ad un altro risultato già ottenuto durante COP26 e mettendolo insieme ad altri pezzi di discorso di questi ultimi tempi.
102 Paesi hanno firmato a Glasgow un accordo per la riduzione entro il 2030 del 30% delle emissioni di metano (Global Methane Pledge). Restano al momento volutamente fuori dall’accordo la Russia, l’Australia e la Cina.
Una buona notizia, un risultato importante, voluto soprattutto da von Der Leyen e Biden.
Come raggiungere l’obiettivo? Beh, in questi ultimi tempi si batte costantemente un unico tasto: non mangiare carne. Lo si sente ovunque, un tartassamento costante che scatena sensi di colpa in chiunque, anche i più accaniti estimatori di Chianina, come se tutte le colpe della crisi climatica ricadessero solo su coloro che ne consumano, dimenticando che buona parte del metano emesso si deve a fuoriuscite dai pozzi di petrolio e gas e dalle discariche, oltre che dai rutti dei bovini.
Riduciamo, noi che possiamo, il consumo di carne. Facciamolo. Certamente è una buona cosa.
Eppure la notizia dell’accordo mi lascia un fondo di perplessità (e a quanto pare non solo a me). Ovvio che ridurre del 30% le emissioni di un gas che oltretutto ha un alto potere di riscaldamento del pianeta (26 volte di più del diossido di carbonio) sia buona cosa. Purché non sia però lo specchietto per le allodole, purché non serva a nascondere scarsi o nulli processi di riduzione della CO2.
Il metano, infatti, ha un alto impatto a livello di riscaldamento, come dicevamo, ma resta in atmosfera ben poco a confronto con la CO2, 10-20 anni contro secoli. Questo può voler dire che se riduciamo le emissioni di metano raggiungiamo entro breve risultati concreti sulla colonnina del termometro globale: il taglio del 30% – tanto per capire – ridurrebbe la temperatura media globale di circa 0,1°C entro il 2050, che è tanto rispetto a quanto otterremmo riducendo la CO2, ma che è la stessa quantità del surriscaldamento che abbiamo avuto dalla COP21 di Parigi nel 2015 ad oggi.
Se però facessimo solo questo, nei decenni successivi pagheremmo molto caro il prezzo della “disattenzione” nei confronti della CO2. Una CO2 che non siamo riusciti a ridurre di nulla, finora, nonostante si sia arrivati alla COP numero 26.
Bene quindi l’intento, ma attenzione al possibile inganno. Investire solo nella riduzione del metano paga a breve termine, danneggia gravemente a lungo termine. Se poi pensiamo che buona parte (almeno 1/3 se non di più) delle emissioni antropiche di metano si devono ai combustibili fossili, interrompendo le estrazioni e quindi l’uso dei fossili entro il 2030 potremmo raggiungere lo stesso risultato del 30% in meno di metano senza alcuno sforzo aggiuntivo (e senza sottrarmi la mia fettina settimanale).
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