Ci sono medici che ti trattano con sufficienza, che non ti ascoltano, che “sevabbé” quando gli fornisci informazioni precise su ciò che è successo, come se fossi lì per raccontargli cavolate.

E ci sono medici che prendono appunti veloci di ciò che gli dici, che riflettono sulle informazioni che gli dai riguardo ai tuoi sintomi e ai più fantasiosi dei tuoi collegamenti. 

Ci sono medici che non trovi in reparto perché sono in ascensore per andare al bar con i colleghi e tornano dopo un’oretta. Forse. Se ti va bene.

E ci sono medici che non trovi perché devono correre tra reparto, ambulatorio, day hospital, un turno dopo l’altro. Ma che poi tornano. E che nel frattempo ti rispondono con un messaggino e ti rassicurano.

Ci sono medici che puoi raggiungere, forse, solo via fax. Proprio fax. Nel 2021. Quando il fax non si perde tra gli uffici.

E ci sono medici che non si fanno problemi a darti il loro cellulare, che ti rispondono anche di domenica. 

Ci sono medici che sono sempre fuori sede per qualche congresso, quindi i malati non li vedono mai, se non per 2 o 3 giorni al mese, in studio, a 250 euro a botta. E ci sono medici che vanno ai congressi ma restando sempre in contatto con i propri pazienti: lo fanno per poterli curare meglio, non per aggiungere stellette al CV.

Ci sono medici che parlano del tuo caso come se tu non ci fossi, ti danno le spalle e non ti interpellano. E ci sono medici che parlano con te, che ti visitano davvero e non solo a parole.

Ne ho conosciuti tanti, ma l’elogio è per pochi. 

Primo tra tutti, l’oncologo Francesco Angelini, primario in un piccolo ospedale in provincia di Roma, una perla di eccellenza e cortesia, il Regina Apostolorum di Albano Laziale, punto di riferimento in tante specialità mediche per le quali arrivano pazienti da ogni dove.

Angelini è di quelli che ha un piccolissimo studio, invaso da libri e da carte, scrivania incasinata, lucidità mentale e professionale, nonché memoria invidiabile. E’ uno tra i pochi in Italia a saperne di tumori neuroendocrini, una tipologia rara, che ha attaccato anche me. E’ di quelli che ascoltano, che rispondono, che senti vicini. E’ di quelli che si informano, studiano, sperimentano. E’ di quelli che non lasciano indietro nessuno, dalla anziana signora che non può raggiungerlo in ospedale perché è da sola e lui le porta direttamente la terapia a casa, al giovane uomo sottuttoio che lo tempesta di suggerimenti e consigli dall’alto della sua laurea su feisbuk. Vede tutti, ascolta tutti, cura tutti. E ne ha tanti. 

L’altro giorno ha avuto un malore. Ero in studio con lui, mi ha chiesto cortesemente se potevo aspettarlo qualche minuto, quando è rientrato ha chiesto scusa. Pochi minuti dopo l’hanno ricoverato in urgenza. Medico sempre, fa i turni come i suoi assistenti, un piccolo team di eccellenze, a partire dalla bravissima dottoressa Valentina Lo Russo che in questi giorni ha preso in mano le redini del dipartimento oncologico, anche lei col sorriso, anche lei con la pazienza di spiegare qualsiasi cosa chiedano i suoi malati, anche lei sempre disponibile, anche lei preparatissima. 

Poi c’è Roberto D’Ascenzo, urologo, anche lui primario al Regina Apostolorum, fino a pochi mesi fa. Ora lavora in team con Stefano Travaglia, “uno come noi”, mi raccontano in reparto.

D’Ascenzo è di poche parole, ma è di quelli che non mollano: se ha un obiettivo, cerca soluzioni oltre lo standard, ossia lo standard minimo, ciò che gli altri urologi che ho incontrato propongono come soluzione unica. Nessuno che abbia voglia di tentare, di studiare, di approfondire, di scommettere. Nessuno che abbia voglia di ascoltare le difficoltà dei malati, di cercare soluzioni per una qualità della vita migliore. Lui si. Lui cerca. E se qualcosa va storto, non fa finta di nulla, non si trincera dietro le sentenze preconfezionate dei baroni e baronetti della medicina che si vogliono mettere al riparo dai pazienti. Ti spiega, ti rassicura. E cerca soluzioni.

Ci sono gli anestesisti. Quelli che vedi più o meno per tre minuti prima del conto alla rovescia, di cui non sai mai il nome, a meno di non controllare un mese dopo sulla cartella clinica. Lo fai in due soli casi: quando sei stata malissimo, hai vomitato l’anima, avevi dolori ovunque, non ci stavi proprio con la testa, dicevi frasi sconnesse, ed è durata a lungo ed hai proprio voglia, dopo un mese, di segnarti il nome di chi ti aveva anestetizzato. Oppure quando, molto raramente nella mia vita, ti svegli con il dolore dell’intervento attutito, non hai mal di testa, non hai nausea, hai solo voglia di dormire un po’. E lo fai. Ecco, a me è capitato tre sole volte, tra le decine di interventi che ho subito nella mia vita. La prima alla Clinique International de Marrakech. La seconda e la terza nella mia perla di ospedalino Regina Apostolorum. Il dottor Antonio Betti l’ho applaudito e richiesto: la prima anestesia con lui è stata perfetta. Da quel momento ho provato a riaverlo al mio fianco ogni volta, a guidarmi nel mondo dei sogni, scherzando in sala pre-operatoria. Molte volte ci sono pure riuscita, ed ho avuto puntuale conferma. L’ultima volta non c’era. Alla visita pre-intervento avevo scherzato con il dottor Lucio Feo sulle 5 stellette per il collega, confidando comunque su una struttura che non mi ha mai tradito. E infatti: 5 stelle pure a Feo, con il quale abbiamo chiacchierato e anche riso ben più dei soliti 3 minuti, poi mi ha addormentata e al risveglio tutto era a posto. Niente nausea, niente malessere o intontimento balordo, nessun dolore di troppo, e un sorriso per lui e uno suo per me.

Se ripenso ai medici che ho incontrato negli ospedaloni della capitale, amo ancora di più quella mia piccola perla di provincia, dove i medici ti ascoltano e ti seguono, dove il personale tutto sa accoglierti con gentilezza e professionalità, dove è tutto pulito e in ordine, dove infermiere e infermieri sono gentili, premurosi, oltre che capaci, dove è tutto umano e a misura di malato.

Li vedi che soffrono, quando non riescono a trovare subito la vena per la flebo e devono ritentare. Li vedi che ti accudiscono e scherzano con te, cercando di tirarti su di morale. Figuriamoci quando piangi. Se se ne accorgono, sono capaci di abbracciarti (con gli occhi, in tempo di Covid). 

Non esattamente lo stesso grado di empatia di quelli che ho incontrato la scorsa settimana al Pronto Soccorso del Policlinico Top Vergata. Ci sono arrivata con dolori atroci alle due di notte. Infezione renale, blocco della nefrostomia. Per un paio d’ore ho urlato come un ossesso, pietà, aiutatemi. Dovevano aspettare il medico, che era “occupato in reparto”. Li per lì non ci ho riflettuto, ma come è possibile che un medico di turno al pronto soccorso sia contemporaneamente impegnato in reparto? E’ arrivato alle sei di mattina. Nel frattempo per telefono aveva dato indicazione agli infermieri di farmi antidolorifici. Non mi ha ascoltato. Ha chiesto la consulenza dell’urologo. Il quale è arrivato alle 11. Nel frattempo, una tac e 6 buchi – 6 – per fare un prelievo (tanto per dire, nel laboratorio Corilab di Frascati dove praticamente ogni settimana faccio le mie analisi, in 3 anni non hanno sbagliato un colpo. Non una sola volta).

Il consulente urologo mi fa qualche domanda, preleva liquido dal rene, lo manda ad analizzare, consiglia il ricovero e per questo mi fa fare tampone Covid. Mi fanno un antibiotico verso mezzogiorno. Alle 14 cambia il turno. Il nuovo medico legge le stesse analisi della mattina e decide di dimettermi. Chiedo spiegazioni. “Non c’è segno di infezione”. Ripeto, le analisi sono le stesse che aveva visto l’urologo, ma stavolta sono interpretate in modo diverso, evidentemente. Rileggo la lettera di dimissione e scopro che non c’è traccia del tampone effettuato. Forse comparirà nella cartella clinica, che però mi daranno tra due settimane. 

La mattina dopo sono nel mio ospedalino, dal mio urologo, che preleva liquido dalla nefrostomia, inietta fisiologica, ripete l’operazione più di una volta, inietta antibiotico. E risolve. Con il sorriso suo, ma soprattutto mio. 

Il pronto soccorso non è un luogo facile, né per chi ci lavora, né per chi ci capita. Non lo è mai stato, e dopo le ondate Covid del 2020 e del 2021, di sicuro gli animi di chi ci lavora sono ancora più provati. Lo capisco. Quel che mal comprendo è perché trovi quasi sempre medici giovani. Il pronto soccorso è forse il posto più complicato, il più duro, ma anche il più importante di un ospedale. Forse dovrebbe essere affidato a medici con tantissima esperienza.

La sensazione che ho provato, sola in quella poltroncina al pronto soccorso (non affollato, avevo guardato l’app per vedere la situazione in tempo reale), era quella di essere una nullità, uno tra tanti, uno da ascoltare a malapena e prendere le sue parole con le pinze. Duri i volti degli infermieri e delle infermiere, duri quelli dei medici, pochissime parole, tutte sollecitate dalla mia preghiera. Ti senti guardato con sufficienza, non hai la sensazione di essere nel luogo dove si prenderanno cura di te. 

Caro dottor Angelini, grazie di averci lasciato nelle preziose mani di un team magnifico e in particolare in quelle della dottoressa Lo Russo. Rilassati, riposati, e accumula energie positive. Ma… torna presto. I tuoi malati ti vogliono bene.

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giornalista professionista, è direttore responsabile di Giornalisti nell'Erba, componente dell'ufficio di presidenza FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e membro Comitato Scientifico per CNES UNESCO Agenda 2030. Presidente de Il Refuso a.p.s.. In precedenza ha lavorato come giudiziarista per Paese Sera, La Gazzetta e L'Indipendente. Insieme a Gaetano Savatteri ha scritto Premiata ditta servizi segreti (Arbor, 1994). Collabora con La Stampa.

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