Il lutto, la follia, il riscatto. La vita e la morte avviluppate, il buio e il fulmine, l’arte e la follia. Tutto questo in “Mary Shelley e Frankestein” di Enrico Bernard, monologo, anzi no, dialogo con l’inconscio tra la donna e l’artista, tra la figlia e la madre, tra la moglie e l’amante, tra Mary Shelley e Mary Shelley, andato in scena nei giorni scorsi al teatro Stanze Segrete di Roma.
Mary era la bellissima Melania Fiore che ne ha mostrato tratti allucinati, in un teatro forse troppo piccolo per una recitazone ben corposa. Nello snodarsi di un racconto di una collezione di infelicità biografiche (la Shelley ha perso la madre Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo poco dopo la nascita), tre su quatto dei suoi figli da piccoli e suo marito stesso (il poeta, filosofo romantico Percy Shelley, annegato in Italia), vengono intercalati conflitti interiori tra il suo essere donna evoluta e prefemminista e le aspettative del mondo maschile nella prima metà dell’ottocento. Frankestein, creatura nata dalla morte ed amata dalla sua creatrice, è il vero riscatto, il momento di luce. Un po’ marito, un po’ padre (il filosolo e politico radicale William Godwin che la tira su con un’educazione ricca ed informale), il mostro Frankenstein incarna il sublime e il diverso, è catarsi della paura umana dell’ignoto, del progresso, del genio. Mary-Melania, folle anche di un tumore al cervello che la ucciderà a 52 anni, sale una scala e per qualche istante sembra serena, crede di raggiungere il momento di luce tramite il viaggio d’amore, ma è solo un momento. La magia dura poco, la follia, il lutto, il genio vincono ancora una volta.
Bianca Attiani
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