Ferrara, 5 ottobre 2014 – Violenze, torture, mutilazioni. Le vittime sono le donne. La causa, ad andarla a cercare per bene, probabilmente è nel sottosuolo.
Kivu Sud, Repubblica democratica del Congo, alla frontiera con il Ruanda. Qui, all’ospedale Panzi di Bukavu, il ginecologo congolese Denis Mukwege, candidato al Premio Nobel 2014, per la pace, da 15 anni cura donne di ogni età violentate in modi estremamente cruenti. Le “ripara”, come ha scritto la giornalista belga Colette Braeckman nel suo libro “L’homme qui répare les femmes” (2012), tradotto in questi giorni da Fandango con il titolo “Muganga. la guerra del dottor Mukwege”. Ripara, come si dice per gli oggetti, e non è una svista ma una constatazione: queste donne sono state trattate da oggetti, “perché così, ai violentatori, la coscienza non rimorde”, spiega Mukwege, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi al Festival di Internazionale a Ferrara.
L’”oggettificazione” è la cifra comune alla violenza contro le donne a ogni latitudine: sei un oggetto quindi ti posso aggredire. In Repubblica democratica del Congo però quella contro le donne è una vera e propria guerra: dal 1999 – anno in cui Mukwege si trovò davanti la prima vittima di violenza – a Panzi sono passate oltre 40mila pazienti sopravvissute a violenze sessuali truci. E probabilmente sono solo la punta dell’iceberg: molte donne non hanno accesso alle cure mediche e molte altre si vergognano e si nascondono.
I loro carnefici appartengono a gruppi armati di varia provenienza, sono “ribelli” e anche membri dell’esercito congolese, dove nel 2002 sono stati integrati ribelli e anche soldati stranieri, spesso traumatizzati o veri e propri squilibrati, pericolosi anche loro ma diventati impuniti “per contratto”. A turno – a ondate – si accaniscono contro le popolazioni della zona prendendo di mira particolarmente le donne. Una vera e propria guerra che usa lo stupro come arma di distruzione di massa. Violentare le donne, infatti, significa accanirsi contro la matrice della vita: ferite gravemente, mutilate, contagiate da Hiv, clamidia e altre malattie, le donne sono gravemente minate nella loro capacità riproduttiva. Ma in una società come quella congolese, dove la donna è tradizionalmente il pilastro della società, lo stupro distrugge i legami familiari e devasta la comunità. E distrugge l’economia, perché le donne ferite gravemente non potranno più lavorare, e i mariti che non le hanno potute proteggere spesso abbandonano il territorio. “Lo stupro è usato per spostare popolazioni , distruggere comunità e anche per distruggere gli individui”, dice Mukwege. Una violenza così estesa da far pensare a una precisa strategia.
Ma perché tutto questo? La storia è lunga e complessa (nel suo libro Colette Braeckman, esperta di Congo, la ripercorre con molta chiarezza), comincia dopo il genocidio in Ruanda e continua fino ad oggi, mentre dal 2012 si registra un nuovo picco di violenze. Nel silenzio internazionale che avvolge la questione, “ormai sembra chiaro che non è una guerra etnica e neppure una guerra religiosa – spiega il dottor Mukwege. – Ufficialmente si dice che non è neppure una guerra tra stati, anche se segnalo che nel 1999 in Congo si sono ritrovati a combattere 7 stati africani. La verità – conclude – è che, sotto diversi pretesti, si combatte per il controllo delle risorse naturali”.
La causa, insomma, è nel sottosuolo – ricco – del Kivu. In particolare interessano i giacimenti di coltan http://it.wikipedia.org/wiki/Columbite-tantalite, o colombo-tantalio, metallo raro usato nell’industria elettronica, computer, smartphone e componentistica per aerei.
L’80% circa del coltan mondiale proviene dalla Repubblica democratica del Congo. Il libro di Braeckman parla di cave controllate da gruppi armati e persone costrette a lavorarvi senza paga “perché loro sono più forti di noi”. Esiste un fiorente mercato nero, da cui coltan, oro e diamanti approdano sul mercato internazionale. Così i signori della guerra diventano referenti delle grandi compagnie che si approvvigionano in Congo, e la guerra non trova ragione di smettere.
Dal 2012 negli USA la legge chiamata Dodd-Franck “impone alle società che utilizzano coltan, tungsteno e altri minerali prodotti in Congo, di poter garantire la tracciabilità delle loro importazioni. Nel caso del Congo e dei nuovi paesi frontalieri – spiega Colette Braeckman in “Muganga” – questa misura serve a limitare o regolare la produzione dei “minerali di sangue” estratti in Africa Centrale”. Prima di favorire la creazione di centri di commercio e di regolare il settore, la legge ha avuto inizialmente degli effetti negativi: le società americane, temendo una pubblicità negativa, preferirono cercare altre fonti di approvvigionamento. Quanto al presidente Kabila, desideroso di “vederci chiaro”, aveva sospeso nel 2011 tutte le esportazioni di minerali, cosa che provocò un grande disordine del settore, di quello ufficiale e del mercato nero”. Risultato: “i combattenti sono ancora là, il denaro invece non circola più…”, dice nel libro Etienne, ex minatore.Mentre l’Unione europea ha annunciato nel 2013 di voler a sua volta limitare le importazioni di “minerali da conflitto” riscuotendo il plauso di tanti che chiedevano un protocollo per la certificazione del Coltan proprio a scopo antibellico, lo scorso settembre un gruppo di esperti africani e non solo ha sollevato dubbi sull’efficacia dei provvedimenti legislativi suggerendo una migliore concertazione tra governo e comunità, lavorando anche ad una riforma di fondo per migliorare le pratiche del settore minerario piuttosto che fornire semlicemente una soluzione di facciata, facendo accompagnare il quadro giuridico da progetti concreti, promuovendo una competizione equa e regolamentata che permetta non solo alle multinazionali ma anche a produttori congolesi di influenzare i prezzi a livello locale, garantendo così un salario minimo decente per chi lavora nelle cooperative minerarie. Ma soprattutto allargando la prospettiva e gli obiettivi degli interventi, tenendo conto delle cause profonde del conflitto, come l’accesso alla terra, l’identità, le lotte politiche nel contesto di una economia militarizzata.
Le discussione sulle soluzioni prosegue. Intanto, quel che è certo è che le violenze contro le donne non sono mai cessate. Anzi, dal 2012 all’ospedale di Panzi è tornato a crescere.
Ilaria Romano
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