Chi organizza e chi modera seminari, convegni, conferenze su questioni ambientali lo sa quanto è difficile, almeno nel nostro paese, far stare in riga i relatori, molti di loro, una gran parte. Dai loro un tema, un titolo intorno al quale organizzare l’intervento, ti dicono si, certo, sta tranquilla, ho capito perfettamente, e invece te li ritrovi che partono per la tangente, dicono quello che vogliono loro e come vogliono loro, si astraggono dal contesto, non guardano il pubblico, si immaginano sempre di aver davanti il loro target preferito, quelli della loro echo chamber, insomma addetti ai loro lavori. Oppure toppano al contrario, per andare incontro al pubblico, parlano semplificato, sembra che abbiano a che fare con nonne e bambinetti, e il pubblico si piega inesorabile sullo smartphone. O infine gridano alla catastrofe, accusano i politici, scagliano anatemi, e, ancora più spesso, propinano sermoni.

Quante volte i tempi della scaletta non vengono rispettati? Praticamente tutte.  Stare nei tempi, quando si parla di ambiente, sembra che sia praticamente impossibile, in Italia. Convegni fiume, da mane a sera, in cui persino io, che di questo mi occupo, riesco ad addormentarmi. Proprio addormentarmi, in senso fisico, non metaforico.  Cosa che, ad esempio, non avrei fatto se avessi potuto accettare l’invito al summit di Ney York dell’UnGlobalCompact ad ottobre scorso. Sono CEO, quelli, e non hanno tempo da perdere, sanno organizzare (anche i loro discorsi) e andare al sodo. Il programma la dice lunga, basta guardare i tempi a disposizione per affrontare temi e soluzioni: 10 minuti massimo ciascuno, 50 minuti per 4 relatori. Certo, si possono inventare nuovi format che funzionano (ci abbiamo provato con #chilodicemeglio ad esempio: 7 relatori con 3 minuti ciascuno, in gara tra loro), ma spesso funzionano perché chi accetta la sfida è pronto per vincerla (erano comunicatori e portavoce di imprese come Nestlé, Carlsberg ecc o di enti come il Ministero dell’Ambiente e la Marina Militare e un campione della divulgazione scientifica come Rossi Albertini). Cosa rara, tra i cosiddetti ambientalisti o esperti d’ambiente o giornalisti ambientali. 

Faceva bene, insomma, Tullio Berlenghi una decina d’anni fa a prendere in giro, con il suo Come difendersi dagli ambientalisti, “un certo ecologismo di maniera di cui tutti ormai abbiamo, non lo si può negare, piene le tasche”.  In effetti, anche sui giornali sappiamo bene che questioni riguardanti clima e ambiente ci finiscono poco e male, a meno che non si tratti di denunce dei comitati, avvelenamenti, disastri, perché, come ci confermava Peter Gomez, non vengono seguiti dai lettori, quindi sono “poco giornalistici”. Dieci anni fa Berlenghi prendeva in giro gli “ambientalisti”. Oggi la situazione non mi pare molto diversa.

Forse è la parola stessa, ambiente, che va cambiata, non va più usata, insieme al sostantivo in ista. Evoca pipponi senza fine, prediche dal pulpito, letture complicate e/o noiose, discorsi moralisti, buonisti, un po’ come quelle ritrite immagini della sfera terrestre su una mano di donna che sono su una costante se cerchi su google qualunque cosa abbia a che vedere con ambiente. O forse è meglio lasciarla agli ambientalisti e riprendere, invece, noi giornalisti il ruolo di quelli che di “ismi” ne hanno uno solo: quello della professione.

Il punto è che, come su tutto il resto, ciò che importa è il SEO e il titolo ad effetto. Se ha a che fare con la Raggi e gli allagamenti a Roma, allora va. Se è un report IPCC, un racconto da una COP, una relazione sui consumi energetici, il titolo e il SEO non bastano. Perché è vero che la gente non le cerca, certe informazioni. E’ vero che la gente evita di cercare informazione sulla catastrofe imminente – una catastrofe che pure è sotto gli occhi ma che – guai – non si deve nominare. Il binomio “cambiamento climatico” (termine in discesa su google) – o anche “riscaldamento globale” (termine di ricerca spesso usato da Roma in giù, mentre a Roma e Milano si preferisce “cambiamento climatico”), sembra in ascesa, ma spesso a sproposito, spesso per essere smontato o strumentalizzato, col risultato che se ne parli per commentare questo o quel politico che vi ha fatto riferimento per scaricarsi la coscienza dall’inefficienza all’adattamento.

Che si dovrebbe fare, allora, per fare informazione corretta su ambiente e clima? Svestirsi dei panni di saccenti, prima di tutto. Scrollarsi di dosso l'”ambientalista” che è in molti di noi, per ritornare a fare il mestiere di giornalista, senza aggettivi al seguito. E registrare il dato di fatto: ambiente e clima non sono argomenti a sé, ma fanno parte di ogni “rubrica”, dal sociale all’economico, dalla giudiziaria alla cronaca, dalla moda alla cultura, e soprattutto alla politica, dove non vengono praticamente mai registrati.

 

 

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giornalista professionista, è direttore responsabile di Giornalisti nell'Erba, componente dell'ufficio di presidenza FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e membro Comitato Scientifico per CNES UNESCO Agenda 2030. Presidente de Il Refuso a.p.s.. In precedenza ha lavorato come giudiziarista per Paese Sera, La Gazzetta e L'Indipendente. Insieme a Gaetano Savatteri ha scritto Premiata ditta servizi segreti (Arbor, 1994). Collabora con La Stampa.

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