di Michela Salvetti*

Il 23 novembre 1993 Giuseppe di Matteo venne rapito da uomini della mafia del clan di Riina in un maneggio vicino a casa: aveva 12 anni ed amava i cavalli.
Era figlio di Santino Di Matteo che aveva partecipato alla strage di Capaci e all’attentato a Borsellino, ed era diventato collaboratore di giustizia.

Il sequestro di Giuseppe durò 779 giorni, trascorse coi suoi carcerieri due compleanni e due feste di Natale, senza famiglia nè amici, senza sapere quale sarebbe stato il suo destino, reso dalla prigionia incapace di ogni reazione.
Si legge nella deposizione di uno dei suoi carcerieri: “l’ho sempre davanti agli occhi….Il bambino non ha capito niente, perché’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione più` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di libertà`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…”

L’11 gennaio 1996 Giuseppe fu strangolato e poi il suo corpo fu sciolto nell’acido.
Il 19 gennaio avrebbe compiuto 15 anni. Nacque lo stesso giorno di Paolo Borsellino, anche lui vittima del medesimo piano criminale.
Sequestrare e uccidere un bambino non è un segno di potere, ma rappresenta un atto vile e una violenza inaccettabile.

La morte di Riina è stata raccontata come quella di un potere inalterato e indiscusso, dando una forte rilevanza alla sua fine, con il rischio però di mitizzarne la figura. Ogni morte va raccontata con rispetto, ma nel giorno della scomparsa di Riina è giusto ricordare soprattutto le sue vittime, perché solo attraverso la loro storia si capisce chi egli fosse veramente.


Le vittime vanno ricordate perché rappresentano per tutti noi una lezione di educazione di legalità. Giovanni Falcone diceva che “gli uomini passano ma le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa …”
La memoria e i ricordi sono alla base della nostra identità e della nostra cultura, per questo bisognerebbe parlare delle storie delle vittime della mafia, non solo per commemorarle, ma come fondamenti della costruzione di un senso comune di Giustizia.
La storia delle vittime della mafia ci insegna l’importanza di trasmettere alle nuove generazioni il rispetto della norma per consenso e non per paura dell’aspetto sanzionatorio. La storia e la conoscenza ci danno delle chiavi di lettura del presente, sono testimoni del passato e avvertimento per il futuro.

 *psicologa giuridica

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