Ho un tumore e – per ora – non ho il Covid-19

Non sono ne la prima ne l’ultima. Siamo tanti. Siamo tre milioni e mezzo nel nostro Paese. Siamo schiacciati dal Covid. Non esistiamo più.

Ho un tumore e – per ora – non ho il Covid-19. Non sono tra quei 18 mila morti oncologici in più che si calcolano come vittime del lockdown e delle misure di contenimento dell’epidemia. Non credo di essere neppure, per fortuna, tra quei 600 mila pazienti in lista da attesa per interventi chirurgici da recuperare perché finiti nell’imbuto post chiusura: il mio prossimo intervento (sarebbe il 4° quest’anno 2020) dovrebbe essere programmato tra qualche giorno. Sono in attesa di chiamata e se non prendo il Covid-19 dovrebbe andare in porto.

Già, perché se per caso al tampone preventivo, che mi faranno prima del ricovero, dovessi risultare positiva, salterebbe tutto. 

Se fossi positiva, il mio tumore e tutti le altre patologie più o meno serie collegate, passerebbe in secondo piano. Prima dovrei guarire dal Covid-19. E, si sa, per i pazienti oncologici, il tampone negativizzato arriva chissà perché molto tempo dopo, mesi e mesi dopo, rispetto agli altri pazienti. Chissà nel frattempo che danni fa il mio tumore.

Ho un tumore raro e di conseguenza ci sono pochi medici che se ne occupano con competenza, nel nostro Paese

Quelli che ho scelto io sono il team Net (neuroendocrinal tumor) dello IEO di Milano, guidato da Nicola Fazio e Francesca Spada, e l’oncologo Francesco Angelini dell’ospedale Regina Apostolorum di Albano Laziale, in provincia di Roma. Ho fatto varie tappe, negli ultimi due anni, ho “frequentato” ospedali di altre regioni, e anche gli ospedaloni universitari, ho avuto varie grane, insomma, ho un po’ esperienza in fatto di sanità dal punto di vista del paziente. E sono un paziente che si è sempre dimostrato tale, un po’ per educazione e un po’ per quella necessità che fa virtù. 

La mia pazienza è stata messa alla prova soprattutto in questi ultimi mesi e lo sarà verosimilmente ancora, perché il Covid è ancora qui e lo sarà a lungo. 

So benissimo che finora mi è andata fin troppo bene, rispetto a tanti altri, e questo grazie anche alla fortuna di aver fatto scelte giuste: lo IEO e il Regina Apostolorum. I miei medici non mi hanno abbandonato anche quando erano in pieno affanno da emergenza. Il team milanese mi ha chiamato, mi ha consigliato, mi ha tenuto lontana nei momenti in cui il rischio era più forte. Il dottor Angelini, più vicino ancora, anche geograficamente, è di quelli con cui puoi parlare in ogni momento, di quelli che trovano le soluzioni anche quando sono sotto pressione. Il Regina Apostolorum è un ospedale piccolo, in provincia, una perla della sanità che ad un certo punto è diventato pure hub covid e che si è organizzato ed è riuscito a non dimenticare i suoi pazienti d’affezione.

Eppure anche lì, per le precauzioni necessarie a contenere i contagi, ho rischiato brutto. 

Avevo la febbre alta già da qualche settimana. Una febbre dovuta ad una infezione delle vie urinarie. Bisognava rimuovere la causa, cambiare i vari tubicini sintetici che alimentavano l’infezione, insomma, c’era bisogno di un intervento chirurgico. Ma con la febbre, per le regole anti-covid, non mi potevano ricoverare. Un cane che si mordeva la coda. Ho fatto a casa cicli di antibiotico, per cercare di abbassarla. Ma il lunedì del ricovero, ecco di nuovo la febbre. Niente ospedale, intervento rimandato. Il lunedì successivo, dopo una settimana di rocefin a bomba, ci si riprova (il mio medico è tenace). Niente febbre la mattina. Alle 14 entro in ospedale per il tampone. Me lo fanno subito. Sono ricoverata in isolamento in attesa del risultato, che arriva il giorno dopo, negativo. Ma, mezz’ora dopo il mio ingresso, ho di nuovo 38.5 di febbre: l’ho scampata per un pelo, se la febbre fosse arrivata un po’ prima, non mi avrebbero ricoverato. Nei giorni successivi ecco la sepsi, infezione gravissima, rischio brutto, ma ormai sono dentro, mi curano, mi operano, il peggio è passato. Chiedo: cosa sarebbe successo se fossi risultata positiva?  Beh, mi avrebbero rimandata a casa o trasferita allo Spallanzani, dove mi avrebbero curata solamente per Covid-19. E la setticemia? E i problemi renali che mi stavano distruggendo? E la mia chemio, il mio cancro? 

Come me, peggio di me, anche molto peggio di me, tanti altri. 

Ciò che non è urgente si rimanda. Lo rimandano i pazienti per paura di andare all’ospedale e prendersi il Covid, lo rimandano gli ospedali che per una ragione o l’altra sono comunque affogati (per l’emergenza Covid e per l’effetto imbuto delle prenotazioni). I ritardi diagnostici sono danni. Gli interventi chirurgici accumulati e da “smaltire” (in un’emergenza che non è passata affatto) possono essere danni.

Rispetto a prima della pandemia, a parità di condizioni, si erogano nello stesso tempo circa la meta’ delle prestazioni, tra arretrato da recuperare e velocità dimezzata, perché le misure di contenimento sono ancora molto severe: al 30 maggio, il dipartimento regionale delle Politiche per la Salute ha contato circa 700mila visite ed esami in stand-by.

Anche io come tanti ho visto slittare le tac. Ne dovevo fare una a marzo, ma per l’emergenza me l’hanno cancellata due volte. L’ho fatta privatamente, quasi 400€ che per fortuna mi sono potuta permettere. Non tutti possono. Soprattutto in tempi di crisi come questa.

Ciò che non è Covid pare non esista più. Eppure c’è e non è poco. Mi chiedo ad esempio che fine abbiano fatto quelle altre 70 persone che con me erano al pronto soccorso del Sant’Andrea a fine ottobre 2019, prima della crisi. Ci siamo rimasti per giorni, qualcuno pure due settimane, accalcati, barelle in fila una attaccata all’altra (e te la dovevi tenere stretta se avevi avuto la fortuna di acchiapparne una), in fila al bagno unico, a placcare qualche medico in corsa per sapere qualcosa, a fare chi grida più forte per farsi sentire, ore, giorni infiniti, col cibo distribuito direttamente in mano, zaini, copertine portate da casa, asciugamani, tutto sulla stessa barella, scarpe infilate sotto, operatori delle pulizie che non potevano passare lo straccio perché non c’era spazio a sufficienza, infermieri esasperati, medici in confusione, schede da aggiornare, burocrazia. Che fine hanno fatto i 70 di ogni giorno ai pronto soccorso della capitale? Sono guariti tutti per grazia divina? 

Non solo Covid: gli altri pazienti e i numeri dei “danni”

Anche io come tanti ho visto slittare le tac. Ne dovevo fare una a marzo, ma per l’emergenza me l’hanno cancellata due volte. L’ho fatta privatamente, quasi 400€ che per fortuna mi sono potuta permettere. Non tutti possono. Soprattutto in tempi di crisi come questa. 

Cancellazioni e slittamenti.

I danni collaterali da Covid-19 sui malati di altro non sono ancora stati davvero calcolati. Ma ci sono.

Ci sono stati i malati ricoverati per problemi diversi dal coronavirus che sono deceduti per Covid-19 preso in ospedale. Ci sono malati oncologici che hanno diagnosi in ritardo e, si sa, il cancro non aspetta. Ci sono i 600 mila interventi chirurgici da “recuperare”, sempre che si faccia in tempo a salvare i pazienti: non erano operazioni urgenti quando sono slittate, ma una parte nel frattempo lo diventano. 

La stima dei 600 mila interventi da recuperare, nei quali non rientrano al momento i miei, è dell’associazione dei chirurghi ospedalieri, l’ACOI, che ha cominciato il sondaggio a maggio e l’ha aggiornato in questi giorni (ne leggo una sintesi sul Corriere della Sera del 19 settembre a firma Margherita De Bac): solo il 21% dei centri è tornato a funzionare a pieni giri. La priorità di dover rispondere all’emergenza sopratutto in termini di posti di rianimazione, scrive De Bac, ha sottratto spazio ai pazienti ordinari: non ci sono sale operatorie, posti letto, anestesisti (51%), personale infermieristico (41%) e chirurghi (8%) sufficienti a smaltire in fase 3. “La ripartenza è stata molto lenta per difficoltà di risorse umane e tecnologiche. Non si è fermato il fenomeno del contenzioso medico legale. Ci chiamano eroi poi però non dimenticano di chiamarci in tribunale”, dichiara Piero Marini, primario del San Camillo di Roma, alla guida di ACOI. “Gli interventi persi si accumulano, i tumori non possono aspettare”.

Secondo uno studio dell’Università di Birmingham, pubblicata sul British Journal of Surgery, oltre 28 milioni di operazioni programmate (3 su 4, il 72,3%) potrebbero essere cancellate nel mondo nel corso del 2020 a causa di Covid: 2,4 milioni per ogni settimana in più di emergenza. Tra questi potrebbero essere 2,3 milioni gli interventi per tumore annullati o posticipati e e 6,3 milioni quelli di ortopedia.
Lo studio si basa sull’analisi dell’attività di 359 ospedali in 71 Paesi del mondo.

1 milione e 400 mila esami di screening in meno.

Il 21 settembre l’AIOM dirama un comunicato: “Diventano misurabili gli effetti della pandemia sulla cura dei tumori nel nostro Paese. Nei primi 5 mesi del 2020, in Italia, sono stati eseguiti circa un milione e quattrocentomila esami di screening in meno rispetto allo stesso periodo del 2019.  Prime visite: 30% in meno. Riduzione della sopravvivenza stimata nel 5-10%.

I ritardi si traducono in una netta riduzione ad esempio non solo delle nuove diagnosi di tumore della mammella (2.099 in meno) e del colon-retto (611 in meno), ma anche delle lesioni che possono essere una spia di quest’ultima neoplasia (quasi 4.000 adenomi del colon-retto non diagnosticati) o del cancro della cervice uterina (circa 1.670 lesioni CIN 2 o piu’ gravi non diagnosticate)”, si legge nel comunicato degli oncologi.

Queste neoplasie non sono scomparse, ma saranno individuate in fase più avanzata, con conseguenti minori probabilità di guarigione e necessità di maggiori risorse per le cure

Le nuove diagnosi di cancro si sono ridotte del 52%, i morti per infarto sono aumentati di tre volte.

Spiega Giordano Beretta, Presidente Aiom e Responsabile dell’Oncologia Medica all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo: “La pandemia pero’ sta modificando gli scenari. Le incertezze riguardano in particolare la prevenzione secondaria, cioe’ gli screening. Le neoplasie, non rilevate in questo periodo, verranno comunque alla luce prima o poi, ma in stadi piu’ avanzati e con prognosi peggiori.

Nel Regno Unito è stato stimato che il ritardo diagnostico causato dalla interruzione e dal rallentamento dei servizi sanitari possa essere la causa di aumento della mortalità (rispetto al periodo pre Covid-19) nei prossimi 5 anni fino al 16,6% per i tumori del colon-retto e al 9,6% per la mammella, a cui si aggiungono tutti gli altri tumori non ancora calcolati. “L’allarme lanciato nel Regno Unito e negli USA si può applicare anche in Italia- afferma Saverio Cinieri, presidente eletto Aiom e Direttore Oncologia Medica e Breast Unit dell’Ospedale ‘Perrino’ di Brindisi- A oggi, il ritardo diagnostico accumulato e’ limitato, ma sta crescendo anche per le modalità organizzative necessarie per garantire il distanziamento fisico dei cittadini che si sottopongono agli screening”.

I dati sono stati riportati anche da Stefania Gori, presidente della fondazione AIOM durante l’audizione in Commissione Affari Sociali alla Camera qualche settimana fa. Con la Gori anche Vittorio Donato, Presidente di Airo (Associazione italiana Radioterapia e Oncologia clinica), Francesca Tosolini, direttore del Centro di riferimento oncologico dell’Istituto nazionale tumori di Aviano e Francesca Bordin della Società italiana di cure palliative (Sicp).

Gori: “Tra marzo e maggio gli screening sono stati interrotti – ha ricordato -. Abbiamo registrato una riduzione del numero delle visite ambulatoriali. I pazienti in follow up, quelli in ormonoterapia e sotto cure palliative sono stati visitati solo in presenza di sintomi clinici sospetti, altrimenti sono stati gestiti telefonicamente o via web. In alcune degenze oncologiche si è dimezzato il numero di pazienti oncologici ricoverati”.

Cosa significherà questo in termini di danni alla salute e decessi in più lo sapremo nel tempo, ma è un fatto che “le prime visite oncologiche si sono ridotte del 30%, c’è stata inoltre una riduzione dei pazienti arruolati negli studi clinici – ha continuato Gori -. C’è stato un numero ridotto di nuove diagnosi di tumori maligni. In Olanda, dove il registro tumori ha già i dati dal 12 febbraio al 12 aprile, la riduzione delle nuove diagnosi di tumore è del 26% (tumori maligni non cutanei)”.

“Considerando che in Italia ci sono mille nuove diagnosi di tumori maligni al giorno – ha aggiunto – possiamo comprendere quanto inciderà questo stop. L’impatto sulla sopravvivenza non lo sappiamo, è stata stimata una riduzione della sopravvivenza del 5-10%. Sappiamo anche che l’impatto degli screening è più modesto: ci fa fare un 20% di nuove diagnosi al mese sul carcinoma della mammella, l’8% in più sul colon retto. Ci riferiamo a oltre due milioni e mezzo di persone che hanno bisogno di assistenza oncologica specialistica».

«Inoltre – spiega ancora Gori – la diagnosi di tumore è stata spesso legata a un esito infausto per i malati di Covid: il 16% dei decessi per Covid è rappresentato da pazienti oncologici, mentre il 60% dei deceduti aveva due o tre patologie. Ci sono poi state problematiche di tipo psicologico molto importanti. Durante l’emergenza Covid abbiamo cercato di stare vicino ai pazienti diffondendo le misure di prevenzione del contagio concentrandoci su un decalogo elaborato insieme a 32 associazioni dei pazienti per evitare che i malati di cancro possano contagiarsi in ambiente ospedaliero. Nel decalogo abbiamo ribadito la necessità di creare percorsi separati per i pazienti oncologici e un controllo continuo del personale sanitario».

Altro settore critico è quello delle malattie del cuore. L’allarme è stato lanciato a fine aprile dalla Società italiana di cardiologia (Sic): l’attenzione esclusiva su Covid-19 e la paura del contagio rischiano di vanificare i risultati ottenuti in Italia con le terapie più innovative per l’infarto e gli sforzi per la prevenzione degli ultimi 20 anni. Uno studio condotto in 54 ospedali italiani ha valutato i pazienti acuti ricoverati nelle Unità di terapia intensiva coronarica nella settimana 12-19 marzo, facendo un confronto con lo stesso periodo dello scorso anno.

“Il nostro studio ha registrato una mortalità tre volte maggiore rispetto allo stesso periodo del 2019, passando al 13,7% dal 4,1 %”, dice Carmen Spaccarotella, coautrice – Un aumento dovuto nella maggior parte dei casi a un infarto non trattato o trattato tardi. Il tempo tra l’inizio dei sintomi e la riapertura della coronaria durante il periodo Covid è aumentato del 39%: un ritardo spesso fatale perché nel trattamento dell’infarto il tempo è un fattore cruciale. L’età media di questi pazienti è stata di 65 anni”. Non solo. «All’aumento della mortalità è associata una riduzione dei ricoveri per infarto superiore al 60%”.

Codice Viola, associazione che si occupa della qualità della vita dei malati di cancro al pancreas, ha sottoposto a questionario circa 500 persone poco dopo chiusa la fase 1: l’81 per cento ha avuto cancellazioni di visite, terapie e interventi senza che gli venisse prospettata un’altra modalità. Meno coloro che si sono visti annullare la seduta chemioterapica: l111%. Rinviati a data da destinarsi, nel 42% dei casi, i controlli durante la terapia, il cosiddetto follow-up. 

Di giugno una stima della Fondazione Insieme contro il cancro: 11 milioni di visite e accertamenti arretrati da smaltire, screening e follow up bloccati o al rallentatore. Il 20% dei malati oncologici non si è presentato in ospedale alle visite programma. 

Secondo uno studio di Nomisma, uscito sempre a giugno, erano quasi 4 milioni i test che dovranno essere effettuati per pareggiare i conti con gli anni precedenti entro dicembre.

Dati altrettanto tristi arrivano dalle malattie cardiache: nei 54 ospedali censiti, la pandemia ha fatto registrare una riduzione del 48,4% dei ricoveri per infarto miocardico acuto.

In un altro sondaggio promosso da una rete di associazioni (salutebenedadifendere.it) su un campione di 774 pazienti sul territorio nazionale si legge che un terzo degli intervistati si è visto sospendere esami e visite di controllo. Giorgina Specchia, professore ordinario di Ematologia Università degli Studi Aldo Moro di Bari spiegava a fine maggio al Corriere che “le emergenze assistenziali hanno richiesto in modo repentino una notevole quantità di risorse umane e strumentali per far fronte alla presa in carico dei pazienti sintomatici con infezione da Covid-19. Non è stato semplice per le direzioni degli ospedali organizzare e sostenere il carico assistenziale con i percorsi in sicurezza (cioè non a rischio di contagio per tutti gli altri malati) compresi quelli onco-ematologici. In questa situazione molti pazienti, per lo più anziani e privi di supporto famigliare, si sono sentiti trascurati o abbandonati”.

Altro numero significativo. Per il mese di marzo Istat e Istituto superiore di sanità (Iss) hanno calcolato una mortalità nel Paese aumentata del 50% circa rispetto alla media degli ultimi anni. L’eccesso dei decessi è di 25.354 unità, di cui il 54% è costituito dai morti diagnosticati con Covid (13.710). Il resto dei morti in più?

Se è vero, come si legge negli studi pubblicati su Nature Cancer, che nei pazienti oncologici il rischio di infezione da Covid non è più alto (e meno male), nel mondo, secondo un altro studio della London School of Hygiene & Tropical Medicine, pubblicato su Lancet Global Health, una persona su 5 ha una patologia che potrebbe aumentare il rischio di morte in caso di infezione da COVID-19. Infatti, il rischio di eventi avversi dell’infezione da SARS-CoV-2 è significativamente più alto nei pazienti oncologici rispetto a quelli non affetti da cancro, in particolare negli uomini, negli anziani e in coloro a cui la neoplasia è stata diagnosticata non più di 2 anni prima dell’infezione. Ecco appunto. Non dimentichiamo di curare gli altri tanti malati.

Che fare. Le proposte degli oncologi, e quelle mie

Bisogna riorganizzare, e bisogna farlo velocemente. I danni da emergenza e misure di contenimento Covid sui malati da altre patologie devono essere presi in carico e limitati il più possibile. “Non penso che possiamo dire con certezza quale sarà l’impatto della pandemia sulle malattie oncologiche, sulla mortalità e morbilità, ma ritengo sia molto preoccupante”, ha affermato Norman Sharpless, del National Cancer Institute, che ha cominciato a creare modelli per stabilire l’impatto del ritardo delle diagnosi, dell’assistenza e degli screening.  

Le linee su cui lavorare proposte dagli oncologi dell’AIOM, in estrema sintesi sono due: La telemedicina e il territorio. 

Il piano del governo sulla sanità dovrebbe essere presentato il 15 ottobre: il ministro della Salute, Roberto Speranza, intervenendo alla Camera nel question time del 23 settembre, ha detto che con i fondi del Recovery Fund il Servizio sanitario nazionale “dovrebbe investire in nuovi macchinari, telemedicina e digitale” (Repubblica). Dei problemi NonsoloCovid si discute in varie seri. Ad esempio tra il 1 ottobre e il 5 novembre, il Forum del Sistema Salute 2020 (in forma digitale LIVE) si esploreranno soluzioni tra accentramento e decentramento della Sanità, ci si chiederà “quali dovranno essere i nuovi modelli di assistenza e cura di tipo ospedale-territorio-domicilio, come rendere gli ospedali più intelligenti, quali competenze e abilità saranno necessarie nella nuova Sanità, quale burocrazia ostacola l’innovazione e come possiamo eliminarla, quale telemedicina e sanità digitale si realizzerà in Italia come frutto di diverse spinte e responsabilità”.

Già ad agosto, al panel di esperti partecipanti alla Opening Session di ASCO20 Virtual Education Program, si discuteva di cancro e covid: “Nello stravolgere tutto il mondo, la crisi COVID-19 ha innescato conseguenze potenzialmente gravi per la diagnosi del cancro, il trattamento, la mortalità, gli studi clinici e la formazione dei futuri oncologi”. Ma la pandemia ha pure generato progressi nella telemedicina, si è detto al panel, che potrebbero fornire un modello per il futuro apprendimento virtuale e per le consultazioni tra i professionisti sanitari. 

“Potenziando il territorio e la telemedicina si riuscirebbe, entro poco meno di due anni, a ridurre del 30% l’accesso per visite e terapie negli ospedali dei pazienti con le principali patologie oncologiche – diceva a giugno in un webinar il presidente della Fondazione Aiom Stefania Gori -. L’esperienza Covid ci ha insegnato che possiamo reimpostare i protocolli di follow up e che è possibile eliminare esami diagnostici, talora eccessivi. Si calcola che la spesa sanitaria per il follow up, pari a 400 milioni di euro, sia 10 volte superiore al necessario proprio per l’eccesso di esami prescritti”.

A fine ottobre invece l’appuntamento è con il congresso AIOM, in cui si affronteranno problematiche e soluzioni per coniugare pandemia e modelli organizzativi socio-sanitari anche territoriali per garantire una maggiore presa in carico del paziente oncologico. I network sanitari, le strutture territoriali e la telemedicina sono tra i temi.

Le proposte aio https://www.favo.it/quindicesima-giornata-malato-oncologico/proposte-emergenza-covid.html

Sulla telemedicina ho qualche personale perplessità. Mi fa sorridere. Le email sono una conquista di pochi, vi assicuro. Io sono tra i fortunati che possono scrivere ai propri medici e – vivaddio – ottenere anche risposte. Ho persino il numero di cellulare del mio dottore, gli posso mandare whatsappini e lui mi risponde, Incredibile. Ma se vado poco fuori la mia cerchia ristretta, fuori dal circuìto che ho scelto anche per questo, perché ottengo risposte, siamo al tempo del fax. Non scherzo: per contattare il “centro d’eccellenza” (così si chiama) nell’oncologia dell’ospedale Sant’Andrea di Roma, con cui avevo iniziato, anzi evidentemente no, un percorso, mi hanno spiegato che c’era un solo modo. Inviare un fax. Il quale fax poi sarebbe finito prima o poi sulla scrivania dell’oncologa che in teoria mi stava seguendo. Non so se sia mai accaduto, non ho idea di che fine abbiano fatto i miei fax, sta di fatto che non ho mai avuto una risposta. Non che dal vivo le cose siano andate meglio: in tre settimane di ricovero in un reparto sullo stesso piano di oncologia nell’ospedale, gli urologi non sono riusciti ad ottenere il consulto oncologico richiesto, Sono dovuta tornare un mese dopo la dimissione, appuntamento confermato dall’ambulatorio… ma l’oncologo non c’era. L’ho trovato in privato, 252€ per la visita in una nota clinica romana: stia tranquilla signora, l’iter per la terapia è avviato, la richiamo io nel pomeriggio. Era gennaio 2020. Ho smesso di aspettare la telefonata.

Telemedicina. Ma se talvolta neppure all’interno dello stesso ospedale i computer comunicano tra loro. Nell’inverno 2019-2020, non trent’anni fa, quest’anno, ho dovuto fare un certo numero di visite di controllo in una grossa struttura ospedaliera della capitale, il Sant’Andrea: ogni volta dovevo ripetere tutto daccapo, dati, interventi chirurgici, patologie pregresse, ricoveri, esiti di esami diagnostici… Ogni volta si ricominciava. Non esisteva evidentemente la possibilità di immagazzinare dati e condividerli con i terminali degli ambulatori. Ho chiesto se fosse un (ridicolo) problema di privacy, e… no, i terminali a quanto pare non erano in rete tra loro. 

Telemedicina? Siamo ancora ai DVD, dico DVD, nel 2020. Più volte mi è capitato di voler inviare le immagini di un esame diagnostico a vari medici, ho copiato il contenuto del DVD (che potevo leggere grazie al fatto che ho ancora un vecchio pc) e ho creato una cartella condivisibile su drive. Tutto inutile. 

Proibito ai medici – per ragioni di sicurezza – scaricare dati. Ho dovuto fare una copia del DVD (non si sa mai) e spedire l’originale per posta. 

Telemedicina? Beh, l’unico passo avanti che ho registrato durante il lockdown è la ricetta digitale del medico di base. Solo lui può farla, ma è già qualcosa. Anche se “il sistema” si impalla ogni due per tre, e il medico – che in teoria dovrebbe fare il medico e non il burocrate informatico – doveva perderci le ore.

Modelli organizzativi, ospedaloni e ospedalini.

Ecco, molto negli ultimi anni è stato smontato, invece che organizzato meglio. 

Sono state depotenziate se non chiuse le strutture territoriali per un presunto potenziamento degli ospedaloni. Che spesso non funzionano come dovrebbero. 

Un po’ di esperienza ospedaliera personale

A ottobre 2019, come ho già accennato, ho passato quasi una settimana al pronto soccorso del Sant’Andrea per poi essere finalmente ricoverata (per 3 settimane). 

Al PS, insieme ad altre 70 anime che non vedevano soluzioni, accalcate nei corridoi alla ricerca di risposte, si faceva la posta alla barella e si aspettava. Si aspettava. 

Poi all’improvviso, arriva il medico di turno e mi dice: la creatinina è molto alta, si prepari che la stanno venendo a prendere per mettere due nefrostomie. Aspettavo da un paio di giorni che scendesse l’urologo o il nefrologo richiesti per la consulenza. Aspettavo, come tutti, che venissero a vedermi, a parlarmi, a spiegarmi, a dirmi cosa c’era che non andava. Invece hanno visto le analisi per i fatti loro ed hanno deciso senza prendersi la pena di comunicarmi nulla. Ingolfati, correndo di continuo, senza tregua, gli operatori sanitari cercavano di mettere le pezze, ma 70 persone in corridoio da gestire contemporaneamente più tutti gli altri in attesa nella sala d’aspetto del P.S. non rendevano le cose facili. Un problema organizzativo?

Ho chiesto ad un medico di passaggio se la nefro era una faccenda definitiva o temporanea, insomma se avevo prospettive di una soluzione in tempi più o meno brevi e quello, senza esitare un attimo a pensare all’effetto che mi avrebbero fatto le sue parole, molto tranchant ha risposto: “le nefrostomie sono definitive”. La fretta, l’affanno, la carica dei 70 pazienti in barella, capisco tutto, ma che lo specialista non si prenda neppure la briga di venirmi a parlare, a spiegare di cosa si tratta, no. Comincio a urlare anch’io: se non parlo con lo specialista non autorizzo nessun intervento. A quel punto ne è sceso uno dal reparto. E’ rimasto un po’ sul vago, ma mi ha dato uno spiraglio di speranza, ha parlato di tumor stent, così ho dato l’ok all’intervento. Che doveva essere su entrambi i reni, ma il radiologo interventista – non sapevo neppure che esistesse una figura simile – nel fare l’ecografia preliminare e vedere come posizionare i tubi, ha deciso che uno dei due reni era di dimensioni normali, quindi avrebbe messo la nefrostomia solo ad uno.

In un ospedalone sono rimasta ricoverata per tre settimane, in una stanza in cui, come tutte le altre, le finestre non si aprono, quindi non c’è possibilità di cambiare aria. Oggi, viste le raccomandazioni per la pandemia, eviterei quella struttura fosse solo per questo.

Ancora adesso non ho capito come mai mi hanno tenuto ben tre settimane ricoverata. Dopo un intervento in emergenza, dopo aver ristabilito i valori, avermi insomma rimessa in sesto (qualche giorno), non è accaduto più nulla. In teoria, o almeno io ingenuamente così avevo capito, si aspettava la consulenza oncologica per decidere se sostituire gli stent agli ureteri (che evidentemente non funzionavano correttamente) con altri di diametro e resistenza maggiore, i cosiddetti tumor stent, con anima metallica. 

Ma l’oncologo non è mai venuto. In tre settimane non è riuscito a fare i 37 passi contati di corridoio dello stesso piano che lo separavano dalla mia stanza. Quindi sono uscita dall’ospedale con un successivo appuntamento in ambulatorio, a cui poi l’oncologo mi ha pure dato buca. 

Restava quindi ancora da capire cosa fare degli stent. Dall’ospedale, ossia dalle visite in ambulatorio, non ne usciva nulla, quindi ho pensato di andare in privato da uno degli specialisti. Che mi ha effettivamente messo in coda per l’intervento di sostituzione con tumor stent. 

L’intervento è stato fatto a ridotto del lockdown, a metà febbraio. Sempre nell’ospedalone. Tre giorni e l’urologo che mi ha operato non ha avuto tempo di venire a dirmi com’era andata, cosa era successo. Quando lo specializzando di turno mi ha consegnato la lettera di dimissione, ho chiesto il valore della creatinina (fondamentale per monitorare le funzioni renali) e il dottore mi ha risposto che era 2.2, un valore ben più alto del range, un valore che non avevo all’arrivo in ospedale. Ho domandato spiegazioni, a cosa avrebbe potuto essere dovuto, cosa avrei dovuto fare, e il giovane medico: “Verosimilmente tornerà normale tra qualche giorno, sono cose che possono succedere”. 

Guardo meglio la lettera e leggo che mi è stato sostituito un solo stent invece che due. Chiedo lumi, non me li sa dare: lui non ha l’autorizzazione a vedere il verbale operatorio. Chiedo di chiamare qualcuno che abbia l’autorizzazione, ad esempio chi mi ha operata, che ancora non si era visto, ma nulla: sì, è in ospedale ma non si sa dove. Aspetto. Niente. Nel frattempo lo specializzando, un po’ con la coda tra le gambe, viene a dirmi che il valore della creatina che mi ha dato non è il mio ma quello di un altro paziente. Quanto allo stent numero due, non se ne ha notizia.

Solo dopo aver contattato il medico via email (che avevo grazie alla prescrizione fatta ad una visita fatta in privato), scopro che si tratta di un errore: gli stent sono stati sostituiti entrambi (con tumor stent? Saprò poi, facendo leggere il verbale operatorio ad un altro medico, che no, solo con stent di diametro più grande. E pensare che avevo chiesto conferma prima di entrare in sala operatoria. Una presa in giro, insomma). Devo tornare in ospedale per farmi dare la lettera corretta, un viaggio, per me che abito lontano, una fila con numeretto, qualche ora di attesa (ma sono paziente). E questo tanto per parlare di organizzazione. 

Se poi vogliamo parlare di umanità, di saper dare serenità ai pazienti, ricordo quel giorno come ora. Sono tornata e ho approfittato per chiedere lumi sui successivi step: quando avrei dovuto sostituirli nuovamente, come organizzarsi. Sono uscita di lì in lacrime, tra rabbia e frustrazione: “no, signora, vedrà che non si riuscirà a sostituirli, bisognerà semplicemente toglierli e tenere a vita la nefrostomia. E’ stato molto difficile farli passare e certamente la prossima volta non si riuscirà”. Ma magari, visto che sto facendo la chemio, un po’ di pressione del tumore si allenterà, magari le cose tra un po’ andranno meglio…. “Bah, signora, non si illuda”. 

In fatto di “illusioni” per fortuna mia sono una tignosa: qualche mese dopo, al Regina Apostolorum, l’urologo Roberto D’Ascenzo c’è riuscito, a passare, e senza penare. Sono rientrata in camera dalla sala operatoria dopo solo un’ora da quando sono scesa e stavo pure bene, così, tanto per “illudersi” con soddisfazione.Non solo. Qualche mese dopo, si tenta con veri tumor stent allium.

Organizzazione e umanità. Ne ho trovata tra gli infermieri, tanta. L’ho trovata tra medici e operatori sanitari nel reparto di medicina nucleare dell’ospedale di Cesena, dove ho fatto qualche ciclo di radioterapia. E a quello di Meldola, dove ho fatto esami diagnostici. Allo IEO, dove ogni caso è una persona. Dove la dottoressa Spada, una garanzia quantomeno in fatto di tumori neuroendocrini, segue, studia, sperimenta, e soprattutto ascolta. Non a caso tra lei e l’oncologo Angelini c’è amicizia e stima.

Il Regina Apostolorum è un ospedale piccolo, di provincia, e funziona. Lo dirige suor Annamaria Gasser. E’ stata lei ad orchestrare l’organizzazione dell’ospedale facendo in modo che diventasse un efficiente Hub Covid-19 durante i mesi più duri. 

L’Ospedale, immerso nel verde e la cui costruzione risale agli anni ’60, è di proprietà dell’Istituto della Pia Società Figlie di San Paolo ed è gestito dalla Casa Regina Apostolorum, Ente Ecclesiastico riconosciuto con piena autonomia giuridico-amministrativa, senza fini di lucro. L’attività ospedaliera si inserisce, quindi, a pieno titolo nell’ambito del servizio pubblico e del S.S.R I pazienti accedono ai servizi con le stesse modalità previste per l’accesso ai servizi delle strutture sanitarie pubbliche. 

E’ un ospedale “classificato” ed accreditato definitivamente (DCA 407 del 18/11/2014), la sua attività e le prestazioni erogate sono equiparate a quelle delle strutture sanitarie pubbliche. Ha tutto. Anatomia patologica, anestesia e terapia del dolore, malattie dell’apparato respiratorio, cardiologia, chirurgia generale, endocrinologia e malattie del metabolismo, medicina di laboratorio, diagnostica, medicina interna, medicina nucleare, oncologia, urologia, endoscopia digestiva, centro ambulatoriale odontoiatrico, centro ambulatoriale dialisi (dal 2018, e fortemente voluto da un territorio con un bacino di utenza di mezzo milione di persone che ne era sguarnito), unico reparto di pneumologia dell’area dei Castelli romani. Anche la chirurgia va forte, in particolare quella legata ai problemi della tiroide (è il 5° centro d’eccellenza in Italia per la cura della tiroide): quando sono stata operata io la prima volta nel 2018 dall’ottimo chirurgo dottor Andrea Liverani, c’erano pazienti che venivano da ogni dove. Sento tanta cura, di quella offerta con professionalità e passione, ogni volta che vado li. E’ un ospedale piccolo, la familiarità, la consuetudine quotidiana, i rapporti umani che crescono nel tempo, sono cose più facili da trovare, ma ci vuole sempre una buona dose di volontà da parte di ogni operatore, affinché accada davvero. E poi ogni stanza ha una propria termoregolazione. Ogni stanza ha un bagno pulitissimo, con la carta igienica, con la doccia. Ogni stanza ha una porta finestra (altro che cambiare aria) e un balcone con vista. Se è limpido, si vede persino il mare. Che per me è la vita.

 È qui che lavora da 15 anni  il mio oncologo, Francesco Angelini, il primario di una struttura che comprende il Day Hospital, gli ambulatori, il reparto. Insieme agli altri sei medici del suo team, gestisce, tanto per dare qualche numero, circa 3000 accessi in Dh nei 7 posti disponibili (5 durante il periodo in cui l’ospedale era hub covid) e 600 dimissioni di degenza ordinaria ogni anno, gli ambulatori, i 17 posti letto di oncologia (ridotti a 13 nel lockdown), due guardie mediche al mese ciascuno. E guarda in faccia ogni suo paziente, gli parla, lo ascolta. E’ molto diverso da altri primari in cui sono incappata, diverso da quello dell’ospedale universitario che mi dava le spalle e parlava del mio caso rivolgendosi solo ai suoi pulcini, gli specializzandi, i tirocinanti, gli studenti; diverso da quello che mi mandava i pulcini in processione, una decina al giorno, a farmi dire 33 a ripetizione e non spendeva uno sguardo, una parola, una spiegazione; diverso da quello che ascoltava la lezione imparata a memoria dai pulcini sui referti, le analisi, insomma il faldone ordinato del mio pregresso che gli avevo confezionato, e mi contraddiceva se per caso azzardavo una correzione, e mi trovava incomprensibili spiegazioni pur di dimostrami che io, paziente, ero in errore, perché il paziente, si sa, non capisce niente. E pensare che non mi sono mai azzardata neppure una volta a dire la fatidica frase “ho letto su internet che…”: non fatelo mai, ti azzannano, l’ho visto coi miei occhi.

Il mio medico non è gonfio e tronfio, non si atteggia a barone della medicina, non mi guarda dall’alto in basso. Non mi sbatte in faccia la sua competenza, eppure ne ha: specializzazioni varie a parte (oncologia medica, ematologia generale e di laboratorio), è andato all’estero (Memorial Sloan Kettrering Cancer Center – New York e The Cancer Center – Boston), fa anche ricerca (principal investigator in 15 studi in ambiti come fattori di crescita per le piastrine, tumori neuroendocrini, carcinoma prostatico, mammario, gastrico), ha insegnato a Tor Vergata e alla Bocconi, ha pubblicato studi, è chiamato come relatore a congressi e convegni, è consigliere ordine dei medici di Latina edel Lazio nell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) e, cosa che più interessa me, è uno dei rarissimi esperti di tumori neuroendocrini.

E’ con lui, che ha vissuto il periodo di lockdown in un ospedale hub covid continuando a seguire i suoi pazienti oncologici, che cerco di capire quali possono essere le vie d’uscita, le strategie per curarsi di #nonsolocovid.

Il mio medico.

Lo studio di Francesco Angelini all’ospedale è una stanza piccola con una scrivania grande intasata di pile di carte, un computer a fianco, una stampante, il telefono, la libreria piena su tutte le pareti. Gli infermieri bussano, entrano subito, riescono, vanno e vengono. I medici del suo team sono pochi, giovani e appassionati. “Una squadra che è un orologio”, dice orgoglioso. 

Dalla diagnosi alla migliore cura possibile, stando sul pezzo, seguendo le innovazioni terapeutiche in campo oncologico “che vanno a ritmi tumultuosi”:  “Il risultato ci sta ripagando ogni giorno, l’attività è cresciuta e così, a quanto pare, anche la soddisfazione dell’utenza, che arriva anche da fuori provincia e fuori regione per essere seguita a 360° da noi”. In un piccolo e agile ospedale i team multidisciplinari non sono solo teorie, non sono attivati per decreto istituzionale, ma sono pratici, reali: “per noi è facile lo scambio quotidiano. E grazie a convenzioni con altre strutture, come ad esempio il Gemelli, alcune branche specialistiche come oncologia, radioterapia, chirurgia toracica, endocrinologia, beneficiano di uno scambio efficace di opinioni, informazioni e facilitazione di accessi. L’interscambio continuo assicura che nessuno venga lasciato senza le migliori cure disponibili oggi in ambito oncologico”.

Anche grazie alla radiologia che funziona bene, all’anatomia patologica che funziona bene, qui arrivano biopsie da fare da tutto il Lazio. 120 sono le neodiagnosi di tumore polmonare all’anno. Ma, a proposito del tumore polmonare, il Regina Apostolorum non ha l’autorizzazione regionale a curarlo (demandata a strutture pubbliche anche distanti), quindi non gli vengono affidati i farmaci adeguati, e quindi poi i pazienti sono costretti ad andare altrove. Meglio complicare dove si potrebbe semplificare per venire incontro ai pazienti, insomma.

Com’è andata durante il lockdown? 

Ce la siamo cavata. Non abbiamo mai chiuso. Abbiamo fatto di tutto per seguire i nostri pazienti. Ovviamente non è stato facile, c’è stata un’estrema difficoltà di accesso non solo alle cure ma anche alle nuove diagnosi. 

Già. Con una lastra in mano, mentre tutto è chiuso, dove vai? Il medico di famiglia è il primo consigliarti di aspettare…

Nonostante campagne fatte, le malattie degerative tra cui tumori vanno avanti e se ne infischiano del Covid. E’ vero, le oncologie sono rimaste aperte, ma molti pazienti avevano paura di andare in ospedale. E si tratta di pazienti che di paure già ne hanno abbastanza. Come abbiamo fatto? Abbiamo cercato di rimandare il rimandabile, per esempio, per i controlli dei pazienti che già venivano ogni 6-8 mesi sarebbe cambiato poco. Non c’è stata chiusura totale, abbiamo fatto di meno, ma abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, facendo slalom tra tamponi, distanziamento, riduzioni di posti in DH e in reparto a favore dell’Hub Covid. Ma l’oncologia non si può permettere di aspettare 4 mesi. Abbiamo avuto ritardi negli interventi chirurgici, la radioterapia funzionava, ma ha dovuto rallentare per le regole di distanziamento anticovid. La cosa davvero importante, però, è la necessità di ripensare alla ripartenza. Bisogna ripensare la ripartenza. Il Covid c’è ancora, le misure ci saranno ancora a lungo. 

Come?

L’errore di fondo è quello di aver voluto una centralizzazione nei grossi ospedali. Il modello va ripensato. Già non funzionava, prima del Covid, e soffriva di una spersonalizzazione totale. I team multidisciplinari sono di fatto una grande cosa, ma se sono veri, non fatti a tutti i costi. E soprattutto non solo sulla carta. Si sono un po’ persi i rapporti personali tra medico e medico, si è perso lo spirito di colleganza a favore del malato. Questi team in realtà rendono solo per cose più complicate. Sarebbe piuttosto importante potenziare una rete dei piccoli ospedali, e lavorare su una rete dei medici che si conoscono. Costa di più in termini di impegno, capisco, ma rende migliore l’efficacia. La prassi media è che uno dice fai la tac, ti fa l’impegnativa, e manda via il malato con appuntamento a sei mesi, Bisogna fare uno sforzo in più. E bisogna investire in presidi minimi, territoriali, investire in strutture più piccole, più agili, più gestibili e riservare le tecnologie più avanzate ai grandi ospedali.

Piccole perle

A proposito di medicina territoriale, un’altra perla della sanità è ad esempio il laboratorio di analisi del centro Corilab, anche questo in provincia, a Frascati, alle porte della capitale. Durante il lockdown si sono rimboccati le maniche, e anche nei periodi successivi, tra chiusure di ogni colore. Mai smesso di offrire il loro supporto, con la gentilezza, l’accoglienza ineccepibile, e la professionalità (mai un intoppo, neppure per le mie vene difficili, piccole e martoriate), a partire dal personale dell’accettazione per arrivare a medici e infermieri. File ben gestite, sicurezza, pazienza, e soprattutto un clima in cui ti senti preso in cura. E non è scontato. Non lo è affatto.

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giornalista professionista, è direttore responsabile di Giornalisti nell'Erba, componente dell'ufficio di presidenza FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e membro Comitato Scientifico per CNES UNESCO Agenda 2030. Presidente de Il Refuso a.p.s.. In precedenza ha lavorato come giudiziarista per Paese Sera, La Gazzetta e L'Indipendente. Insieme a Gaetano Savatteri ha scritto Premiata ditta servizi segreti (Arbor, 1994). Collabora con La Stampa.

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