Siamo sicuri di utilizzare sempre le parole in modo appropriato e nel modo giusto? Le parole che pronunciamo incessantemente tutti i giorni, dalla mattina alla sera, hanno un potere? Quale? Spesso non ci pensiamo, ma il potere della parole è immenso!
Lo ha capito bene la classe 3B, Antonio Gramsci di Decimoputzu, la cui docente, Berbardina Troncia fa parte della rete gNe (giornalisti Nell’erba), partecipando al progetto “Il razzismo non è un’opinione” promosso dalle Associazioni Oltre Le Parole e Dire fare cambiare, col tema: Le parole per dirlo.
<In occasione della settimana contro il razzismo ci siamo immersi in un mare di parole offensive, discriminatorie e razziste> dice Laura <e abbiamo deciso di realizzare un lavoro tridimensionale prendendo spunto da una festa giapponese: Il Tanabata-Tanzaku (la festa delle stelle innamorate che ricorda una mitica storia d’amore in cui ogni desiderio… può diventare realtà)>.
Per prima cosa la classe ha visitato il sito “Parlare Civile”, comunicare senza discriminare, che contiene circa 200 schede e fornisce un aiuto a “giornalisti e non” a trattare temi “sensibili” con un linguaggio corretto.
Gli studenti hanno individuato e scelto diverse parole considerate discriminatorie e offensive, parole che conoscono bene perché oltre a sentirle spesso, sono termini che loro stessi utilizzano con troppa leggerezza. Nello svolgimento del lavoro i ragazzi hanno capito che il loro linguaggio è pieno di parole “sbagliate”, cioè parole con un significato originariamente diverso da quello che gli viene attribuito quando vengono usati come epiteti ingiuriosi. Termini come zoccola, lesbica, gay, frocio, che fanno riferimento al sesso e all’orientamento sessuale, altre come zingaro, marocchino, negro, ebreo, che fanno riferimento all’etnia ma che spesso sono utilizzate non per definire persone di una determinata etnia o che provengono da una certa area geografica, ma usate in modo improprio, generico, offensivo e razzista oppure parole come pastore riferite in modo offensivo alla condizione sociale, o altre come per esempio malato, handicappato, tossico che si riferiscono alla malattia o alla devianza e poi tante parole di cui abbiamo approfondito il significato, per esempio omofobia, xenofobia, LGBT, ecc.. Dopo averle individuate sono state riportate su cartoncini colorati e legati ad una piccola canna, al fine di ricordarle bene e di non utilizzarle impropriamente per offendere e insultare, ferire i sentimenti delle persone e farle soffrire. Man mano che si andava avanti con la ricerca dei termini se ne scopriva l’origine e il significato e si rifletteva sulle circostanze e modalità con le quali vengono utilizzati.
Per esempio il termine “Negro”. In spagnolo e portoghese, negro significava
semplicemente nero, e veniva usato comunemente per riferirsi agli africani o altri gruppi etnici di pelle scura. In epoca coloniale, e in particolare in seguito alla tratta degli schiavi, la parola spagnola negro entrò largamente nell’uso anche in lingua inglese. Il graduale rifiuto dei termini negro e nigger da parte della popolazione afroamericana iniziò a prendere forza proprio perché tali termini erano nati in epoca schiavista, e di conseguenza associati storicamente alla stessa discriminazione razziale. Anche oggi il termine viene usato in modo discriminatorio, sottolineando il colore della pelle come simbolo di inferiorità. Non sono di certo meno discriminanti alcune parole utilizzate nei confronti della comunità LGBT. La domanda è sorta spontaneamente: come, quando e quali termini usare senza offendere?
Esistono parole “gentili” e parole “offensive, discriminanti”, pesanti come macigni e taglienti come lame che vengono utilizzate spesso senza problemi e senza pensare alle conseguenze o agli effetti che possono avere sulle persone. Perché con alcuni si usano parole gentili, accoglienti e affettuose e con altri invece parole offensive e discriminatorie? Forse nella nostra società globalizzata c’è ancora una certa paura della diversità, di ciò che non si conosce o ci sono troppi pregiudizi?
<Senza dubbio entrambe le cose>, dice Laura, <la diversità è assolutamente una ricchezza, uno scambio culturale proficuo, utile per “aprire” le menti.> e <Non bisogna dimenticare>, dice Valentina, <che ogni parola che esce dalla nostra bocca ci rappresenta, ha un grande valore, un significato preciso, ma anche un peso. Anche il termine apparentemente più insignificante può fare molto male, a seconda di come viene utilizzato>
Si capisce ora il concetto del famoso detto “il silenzio vale più di mille parole”.
<La responsabilità di come si utilizzano le parole è la nostra,> dice ancora
Valentina, < siamo infatti noi che decidiamo a chi dirle, quando, e in che modo. Una parola può contenere in sé un incredibile potere e, se accompagnata ad altre, può persino essere devastante. Dobbiamo quindi cercare di utilizzare le parole per accogliere e per far stare bene, non per aprire delle ferite e per far stare male le persone>.
La partecipazione a questo progetto è stata molto utile, istruttiva e allo stesso tempo produttiva perché i ragazzi hanno imparato a conoscere il vero significato delle parole che utilizzavano in modo improprio e a prestare più attenzione alle parole che escono dalla loro bocca.

Valentina Munzittu
Laura Orrù
Chiara Stara
classe 3B,
Scuola Media Decimoputzu (CA)

(hanno lavorato alla realizzazione: Marco, Simone, Mirko, Niko, Michele e Valentina M.)

Il lavoro tridimensionale realizzato prende spunto da una festa giapponese: Il Tanabata-Tanzaku.
Trae le sue origini da una leggenda cinese (la festa delle stelle innamorate) che ricorda una mitica storia d’amore in cui ogni desiderio… può diventare realtà. Durante la festa i bordi delle strade vengono agghindati con decorazioni colorate e rami di bambù, pianta considerata sacra; ai rami di
bambù vengono legate strisce di carta colorata, chiamate TANZAKU, su cui ognuno scrive una preghiera o un desiderio. Per far si che i desideri si avverino alla fine i Tanzaku vengono bruciati.
Per il nostro lavoro abbiamo utilizzato una base di legno sottile e piccole canne (ogni canna rappresenta uno di noi) alle quali abbiamo legato strisce di carta colorata dove abbiamo scritto una parte delle parole che riteniamo offensive e discriminanti scelte tra quelle raccolte durante l’indagine sul territorio e che utilizziamo quasi sempre impropriamente . Il nostro desiderio infatti è che quelle parole non vengano più utilizzare per discriminare, insultare le persone e ferire i loro sentimenti.

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