Vanni Santoni, toscano, classe 1978, candidato allo Strega 2017 vinto poi da Paolo Cognetti, era in gara con il suo ultimo “La stanza profonda” (Laterza). Chiediamo a lui come definirebbe Vanni Santoni e come “La Stanza profonda”.
Come aveva a dire Calvino, l’unica biografia dignitosa di un autore è la sua bibliografia. Quindi una qualunque mia “bio” tra quelle che ho lasciato in giro per riviste – che so, questa – è da considerarsi appropriata.
Per quanto riguarda La stanza profonda, non sta all’autore definire il proprio libro, però si può leggere come lo ha definito l’editore, oppure le definizioni dei moltissimi che ne hanno scritto.
Da dove è nata l’idea di scrivere un’epopea dei giochi di ruolo in Italia che scorre in parallelo alla vita del tuo gruppo di gioco, sin da prima della sua creazione?
Premesso che quello raccontato nel romanzo non è il mio gruppo di gioco, né sono “io” la voce narrante della Stanza profonda – per quanto la vicenda sia ispirata anche a fatti personali, la storia di quei giocatori è diversa dalla nostra, per esigenze drammaturgiche, tematiche e letterarie – La stanza profonda nasce da una telefonata. Muro di casse, l’ultimo libro che avevo scritto per Laterza, era uscito da poco e stava andando molto bene, così la direttrice editoriale Anna Gialluca mi chiamò per dirmi che si aspettava un altro libro. C’era quindi da farsi venire un’idea buona, in scia a Muro di casse. Mi balenò subito davanti, prima ancora di riattaccare. Dove avevo del resto passato la mia adolescenza, qualche anno prima di trascorrere la prima giovinezza ai rave? Ma a tirar dadi dietro a uno schermo del master. Giochi di ruolo: un’altra subcultura giovanile negletta, e a volte addirittura perseguitata (ancorché meno di quella free tekno), e che, non meno della prima, era in realtà un’avanguardia culturale. Un’altra subcultura che ha creato parti consistenti del mondo in cui viviamo, e che non era mai stata raccontata in un romanzo.
Durante la stesura del libro ti è mai capitato di pensare che sarebbe potuto diventare un candidato al premio Strega? Come hai reagito alla notizia?
Il percorso fatto con Laterza – prima di Muro di casse c’era stato Se fossi fuoco arderei Firenze – era stato di crescita costante, sia in termini critici che di pubblico, quindi per certi versi era logico che per La stanza profonda, libro in cui l’editore credeva fortemente, Laterza potesse cercare di fare tutto il possibile, e partecipare allo Strega è un modo molto efficace per dare forza a un testo letterario; dall’altro lato non era una cosa troppo prevedibile, dato che fino a quest’anno Laterza non aveva mai partecipato, sebbene il percorso dell’editore, che con la collana Contromano prima, e la Solaris poi, si era sempre più avvicinato alla narrativa potesse suggerire, prima o poi, un interessamento per il maggior premio letterario nazionale.
Sono stato molto felice alla notizia della candidatura, così come al passaggio in “dozzina”, perché il Premio Strega è tra le poche “agenzie” capaci di generare immediato e ulteriore interesse attorno a un romanzo, oggi, in Italia. Specie se il libro sta già andando forte, come era il caso della Stanza, il Premio Strega opera una considerevole azione moltiplicatoria, e ti fa arrivare a molti più lettori in breve tempo.
Gli episodi raccontati nel libro sono veramente accaduti nel tuo gruppo di gioco o sono semplicemente inventati per spiegare le meccaniche di un gioco di ruolo?
Come detto, esattamente come per Muro di casse sono partito da una serie di eventi vissuti direttamente, che poi ho ibridato anche con fatti avvenuti a gente che conoscevo o a persone esterne di cui ho raccolto le testimonianze specificamente per il libro, e infine anche con fatti di fiction. Quando in letteratura si cerca la rappresentazione più vicina alla “verità”, è normale, ancorché paradossale, che i “fatti” non debbano essere vincolanti.
Pensi che ci sia un legame stretto tra scrittura e gioco di ruolo, sia in qualità di giocatore che di master, in quanto entrambi sono modi per evadere dalla società sognando e descrivendo vite ideali?
Anche il gioco di ruolo è un medium narrativo (ancorché eminentemente collettivo) e quindi ha in comune con gli altri alcune caratteristiche. Se però la domanda riguarda anche il come l’esperienza di dungeon master si rifletta nell’attività di scrittore, la risposta è Molto poco. Essendo medium diversi, hanno esigenze diverse. Ciò che rende grande una campagna è molto diverso da ciò che rende grande un romanzo.
Attenzione però a derubricare il gioco di ruolo a semplice “escapismo”: non è così – è, anzi, un’attività di pensiero complessa, che ha come fine la creazione collettiva di senso.
Passiamo a qualcosa di più specifico riguardo ai giochi di ruolo. Nel tuo libro dici che ” un master non è solo un dungeon master: egli, come tutti i DM, è il dungeon master. C’è bisogno di lui! La sua autorità non è però riconosciuta al di fuori del gruppo”. Cosa pensi di questa figura con la quale prima, da giocatore, hai convissuto per poi diventarla?
Trovo che il dungeon master sia una figura nobile, per il semplice fatto che investe tantissimo tempo e tantissime energie per creare interi mondi, oltre che innumerevoli storie, che verranno poi esperiti esclusivamente dal pubblico ristrettissimo dei suoi giocatori. In questo non c’è spazio per la vanità – è evidente che il dungeon master è al servizio dei giocatori – e lo rende una figura molto più nobile di un romanziere.
Nel libro parli di trenta milioni di giocatori e cinque milioni di “stanze profonde” dal ’74 ad oggi, definendo, nonostante si tratti di grandi numeri, il mondo dei giochi di ruolo come una subcultura. Pensi si possa ancora definire cosi’, o ritieni che tra i ragazzi questo fenomeno stia diventando quasi una moda legata, forse, all’idea positiva del fantasy che hanno portato nella cultura popolare film come “Il signore degli anelli” ed “Harry Potter”?
I fenomeni culturali rivoluzionari che sorgono dal basso hanno sempre un ciclo vitale. Nascono per caso o quasi per caso da un humus che contiene in nuce la loro possibilità di sviluppo; si sviluppano in avanguardie; se incontrano una forte popolarità diventano controculture; esaurita poi la loro spinta vitale tornano a essere sottoculture, ovvero nicchie per lo più autoreferenziali ma non per questo non interessanti. Oggi, semplicemente, gli immaginarî fantasy e determinati dispositivi ideati per i giochi di ruolo e poi passati ai videogiochi, sono parti della cultura mainstream – c’è chi ha scritto, come nel titolo di questa intervista, che “i nerd hanno vinto”, ed è vero, ma forse, trasformandosi nei padroni del vapore, non sono più ascrivibili alla categoria stessa dei nerd, almeno come la si intendeva un tempo.
Sempre più giocatori affermano che nel loro gruppo sono presenti donne, che nel tuo libro vengono rappresentate da Leia. Cosa pensi di questo passaggio da un periodo in cui i giocatori di ruolo erano considerati come persone strane, fuori dalla società e che mai avrebbero avuto successo con una ragazza al periodo attuale in cui le ragazze stesse desiderano far parte di un gruppo?
Giusto qualche giorno fa ho presentato La stanza profonda alla Confraternita dell’Uva, una bella libreria indipendente bolognese, e il relatore, lo scrittore Gianluca Morozzi, di qualche anno più vecchio di me, era sbalordito dal fatto che ci fossero più ragazze che ragazzi in sala: “Decine di donne alla presentazione di un libro sui giochi di ruolo, da non credere…” Qualcosa è cambiato, davvero. Semplicemente, diventando l’immaginario fantasy una parte di quello mainstream, non è più assimilabile a qualcosa di “sfigato” come avveniva negli anni ‘90. Anche a eventi come Lucca Comics & Games, che una volta erano popolati solo da ragazzi, oggi ci sono più donne che uomini. Venti o venticinque anni fa, avere più di una ragazza in un gruppo di GdR sarebbe stato considerato non meno che una sciocca utopia.
Tue opinioni personali. Quanto pensi che un gioco di ruolo possa essere importante nella vita di un ragazzo, considerando l’uso dell’immaginazione e il dover socializzare, abilità che viene attribuita dagli adulti come mancante nei ragazzi per via dell’uso dei social network?
È chiaro che i giochi di ruolo, promuovendo da un punto di vista tecnico l’interazione orale, l’uso dell’immaginazione e il problem solving, e da un punto di vista etico la cooperazione, la non competitività e la non commercialità, sono attività assolutamente positive, anche più dei giochi più celebrati dalla nostra società, ovvero gli sport, dove comunque si attua un fenomeno disgiuntivo – lo scopo della partita è del resto stabilire una differenza prima inesistente tra i giocatori, quella tra vincitori e vinti –, per non parlare di quelli di squadra dove la competitività è incentivata anche tra compagni e si è sottoposti a un’autorità esterna, quella dell’allenatore, che può addirittura impedirti di giocare mettendoti in panchina. In un gioco di ruolo ci si sottomette a regole condivise e accettate liberamente, con l’obiettivo di creare un’esperienza che soddisfi tutti: non è un fatto da poco; se lo uniamo alla natura continua e non competitiva dei GdR si può arrivare a ipotizzare, come fanno il Silli, il Paride e il narratore nella Stanza profonda, che più che giochi siano veri e propri riti.
Noti qualche somiglianza tra il fenomeno della blue whale e quello della morte di Loriano, riportato nel libro, “per via dei giochi di ruolo”? Pensi che anche la Blue whale possa essere un’ingrandimento di un qualcosa di inferiore entità o il parlare di giornalisti riguardo qualcosa che non conoscono e dunque un riportare errori?
È evidente che la Blue whale è una falsificazione giornalistica, e nel leggere le molte assurdità che sono volate in queste settimane tornano certo alla mente le tante demonizzazioni di TV e giornali di qualsivoglia fenomeno culturale giovanile, un processo così regolare da sembrare addirittura ciclico: prima il rock’n’roll, poi gli hippie, il metal, i fumetti horror, i videogiochi, i rave, i giochi di ruolo… Da sempre i media mainstream raccontano in modo superficiale e distorto tutto ciò che arriva dal mondo giovanile – basti pensare che il termine “raver” nacque nella stampa inglese nei primi anni ’60 per criminalizzare i ragazzi appassionati di jazz (!) ritenuti pericolosi sciamannati fuori controllo.
Ovviamente il caso “blue whale” è diverso perché non si tratta della distorsione di un vero fenomeno culturale giovanile, ma di una psicosi esplosa a partire da frottole belle e buone, che TV e giornali hanno avuto buon gioco a continuare a diffondere. È chiaro comunque che presentare i giovani come dediti a assurdità incomprensibili e/o pericolose continua a essere un approccio standard dei media mainstream.
Nei tuoi libri parli delle sottoculture, facendo capire che la tua vita è stata caratterizzata dal far parte di “gruppi speciali”. Come ti trovi nella società attuale, ti senti una voce fuori dal coro? Pensi che la gente si concentri troppo sul farsi vedere ed invece dovrebbe imparare a ritagliarsi il proprio spazio in una propria “stanza profonda” di qualunque ambito della vita?
Immagino che anche dedicarmi a tempo pieno alla letteratura faccia di me un outsider. Poi, al di là della mia adesione personale al mondo della free tekno e a quello dei giochi di ruolo il fatto è che, semplicemente, credo che le nicchie e le sottoculture, specie quelle che hanno avuto una fase controculturale, siano ottimi punti di osservazione per guardare alla società nel suo complesso. In particolare mi interessano quelle che, oltre a posizionarsi in modo critico rispetto alla società di massa, hanno il loro nodo centrale nella creazione di mondi altri. Ed ecco il nesso tra free party, giochi di ruolo e letteratura.
Puoi svelare ai lettori qualcosa sulle tuoi prossimi progetti da scrittore e da talent scout?
Per quanto riguarda lo scouting, ovvero la direzione della collana di narrativa di Tunué, posso dire che in ottobre faremo qualcosa per noi completamente nuovo, ovvero pubblicheremo il secondo libro di un nostro autore. Si tratta del Cuore del diavolo – questo il titolo di lavorazione – di Orazio Labbate, e sarà un romanzo che segnerà un punto importante nella maturazione di uno degli scrittori più talentuosi della generazione nata dalla metà degli anni ’80 in poi. Circa l’attività di scouting, ho rilasciato recentemente una lunga intervista al Rifugio dell’Ircocervo (link) che, oltre a descrivere in modo esaustivo la mia attività in tale ambito, fornisce, credo, dei consigli di una certa utilità a qualunque aspirante autore.
Come autore, sto lavorando a tre libri. Il prequel dei due Terra ignota, che sarà un romanzo a sé stante, a carattere urban fantasy, previsto in ottobre per Mondadori, e che si intitolerà L’impero del sogno; un piccolo saggio sulla scrittura, ispirato al metodo d’insegnamento e ai principî che ho sviluppato per i corsi che tengo per la Scuola del libro e per altre istituzioni; infine, un romanzo “grosso”, che spero costituirà un prossimo perno forte attorno a cui costruirò il decennio di scrittura a venire: il titolo di lavorazione è I fratelli Michelangelo e uscirà per Mondadori, credo a inizio 2020 (sempre che riesca a finirlo), ma ancora è presto per dare ulteriori dettagli.
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