Su una collina che si specchia nel mare, nel quartiere genovese di Pegli, sorge il Parco più bello d’Italia 2017. È Villa Durazzo Pallavicini, un giardino romantico ottocentesco, (con sfumature esoterico-massoniche) inaugurato nel 1846 e concepito dal marchese Ignazio Alessandro Pallavicini come un’opera teatrale, affidando la progettazione al prestigioso architetto e scenografo del Carlo Felice, Michele Canzio.
Il percorso è un crescere di emozioni e l’intento di allora è autentico per il visitatore di oggi.
Il parco è di otto ettari e l’itinerario d’ispirazione melodrammatica offerto al visitatore – tutto studiato nel dettaglio in cui nulla è lasciato al caso – si snoda per 2,5 km arrampicandosi sull’erta collina. Comincia con antefatto e prologo, seguito da tre atti di quattro scene ciascuno, per concludersi con un esodo.
I merletti non sono più merletti, sono frastagliati come nuvole. Con la prima porta sormontata da due molossi si “apre il sipario” che spalanca a una tribuna neogotica dalle geometrie acute. Comincia il percorso del parco. Comincia il sogno. Comincia l’opera teatrale.
Antefatto, il viale gotico. La natura è come una selva oscura. Nella lecceta sei immerso e sopraffatto. Seconda porta: coffee-house. Breve pausa.
Prologo, si riprende con il viale classico. È ordine. Praticello che borda la strada e ninfee e la terza porta: l’arco di trionfo. Un arco bifronte, una porta di Giano. Il retro non è lucentezza bianca ma è pietra come di un casolare rustico. L’iscrizione latina invita ad “abbandonare le grandezze terrene preferendo la quiete e la semplicità della campagna”.
Primo atto: il ritorno alla natura. Partecipi alla bellezza. Sei protagonista. Mediti. C’è il sapore agreste di un capanno. C’è l’oasi mediterranea. Le secolari sughere e il sentiero di camelie, i cui petali in primavera fanno un tappeto rosso. E le araucarie, alberi dei tempi dei dinosauri, veri fossili viventi.
Secondo atto: il ritorno alla storia. Questa volta sei spettatore. Va in scena la storia del capitano. Su di una collina in lontananza, sul versante opposto – esterna al parco – si scorge una rovina. È un elemento scenico costruito apposta per simulare un assedio. È ciò che resta del nemico sconfitto. Più avanti il castello medievaleggiante del capitano e più in là il mausoleo del capitano. Una tomba solenne da condottiero ma muta: senza nome. Una vita che insegue le brutalità muore con te non lascia memoria. Le glorie terrene incontrano la caducità.
Terzo atto: la catarsi. È una via di purificazione. La discesa agli inferi in una grotta di stalattiti vere, per risalire nel paradiso: il lago grande, luminoso di natura e di architettura. C’è il tempio greco di Diana, un obelisco egizio, una pagoda cinese, un chiosco turco, un ponte romano: le culture diverse si specchiano nel lago e dialogano tra loro. È godimento estetico. Squisito il giardino di Flora con statue, specchi e fiori. E la scena della rimembranza con la stele commemorativa del poeta ligure Chiabrera.
La rinascita spirituale va incontro all’esodo lasciando il visitatore allo svago: un chiosco di rose, un labirinto, e un’ultima scena del sogno: una rupe con un coccodrillo e un’aquila di pietra.
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