Tempo fa, durante il mio periodo universitario, devo aver letto di una curva che descrive il rapporto tra crescita economica e intensità di inquinamento. La curva di Kuznets ambientale ha la forma di una campana: all’aumentare del reddito pro-capite aumenta, in maniera quasi lineare, l’intensità di inquinamento. Questo, però, non sembra essere confermato quando si tratta di intensità di emissioni gas serra. Per capire il perché, ne abbiamo parlato con Pietro Greco, laureato in chimica, giornalista, si occupa di sviluppo sostenibile, è socio fondatore della Città della Scienza (Napoli) ed è membro del consiglio scientifico dell’ISPRA (istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).
Può spiegarci in modo semplice cos’è una “curva di Kuznets ambientale”?
Per spiegarla in modo semplice possiamo fare un esempio: prendiamo una giovane economia, per sostenersi inquina. Quando l’economia è nella sua fase di crescita si fa poca attenzione alla qualità sociale e ambientale e quindi, per ogni unità di prodotto, aumenta la quantità di emissione della sostanza inquinante. In questa fase non si fa attenzione all’efficienza ma solo ad aumentare la produzione e quindi inquinamento e aumento della produzione crescono insieme, formando la parte ascendente della curva. Via via che, però, l’economia diventa sempre più “matura” le due cose cominciano a disaccoppiarsi, si cerca di produrre con maggiore attenzione all’efficienza e ciò comporta un miglioramento anche sotto l’aspetto della performance ambientale: si produce di più inquinando di meno. È proprio questo il momento in cui la curva comincia a decrescere, il segnale che l’economia diventa più efficiente.
Perché quando si parla di “intensità di emissioni di gas serra” la curva non ha questo tipo di

Pietro Greco
andamento, perché “non curva”?
Innanzitutto perché molti Paesi con economia emergente, i Paesi in Via di Sviluppo (PVS), fanno il cosiddetto “salto di rana”. La curva di Kuznets, nella sua versione classica, è stata confermata dalle grandi prime economie capitaliste: Gran Bretagna e USA su tutti. Già in Italia, in cui l’industrializzazione è iniziata molto tempo dopo, la curva di Kuznets, per quanto riguarda ad esempio l’intensità di carbonio (ma anche energetica), è molto più bassa perché i nuovi arrivati assumono sempre tecnologie migliori. Ci sono stati anche casi nella storia in cui l’andamento tra inquinamento e produzione non è andato secondo la curva, ad esempio nelle economie pianificate dell’Unione Sovietica e dei suoi paesi satelliti l’inefficienza non si è mai fermata, cresceva con il crescere della produzione e nel tempo non è mai diminuita. Invece, nelle economie dei PVS (Cina compresa), si sono utilizzate le migliori tecnologie possibili e questo è il motivo per cui la produzione è aumentata ad un ritmo maggiore rispetto alle emissioni di gas serra.
Ciò che ci si aspetta è che dopo aver raggiunto un picco di emissioni, la curva cominci a discendere e si arrivi ad un minimo. Purtroppo questo, però, non si sta verificando perché tutte le economie stanno convergendo verso la stessa intensità di inquinamento e, secondo molti economisti, il fenomeno è da imputare alla globalizzazione: si cerca di competere tutti con le stesse tecnologie e quindi verso la stessa efficienza o, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo vuoto, verso la stessa inefficienza.
Questo “salto di rana” è sufficiente per mitigare il cambiamento climatico in atto?
È necessario ma non sufficiente. È necessario che ci sia un disaccoppiamento tra produzione di beni materiali e gas serra per ogni unità di prodotto ma non è sufficiente, non basta. Bisognerebbe intervenire con normative molto più restrittive o con un vero e proprio “salto di paradigma”. Questo disaccoppiamento diventerebbe molto più incisivo con una transizione tra combustibili fossili e fonti rinnovabili “carbon free”. Certo è che se cambiamo il sistema energetico allora il tema dell’inquinamento posto dalla curva di Kuznets diventa obsoleto, risolviamo il problema alla radice. Questo è l’unico modo per farlo.
Lei afferma che, per risolvere il problema emissioni, non basta affidarsi solo al mercato globale ma che è necessario l’intervento degli Stati. In cosa dovrebbero intervenire? Quali misure dovrebbero adottare?
Personalmente ritengo che si dovrebbero mettere dei tetti alle emissioni ma di questo a Parigi (durante COP21) non si è voluto discutere. Ripeto, per risolvere il problema bisogna cambiare il paniere energetico nel tempo più rapido possibile puntando anche sul risparmio energetico e su questo le do un dato significativo. Già oggi, se noi sfruttassimo al massimo le nuove tecnologie potremmo abbattere del 30% le emissioni di gas serra: solo risparmiando.
Crede che sia il momento adatto per una “carbon tax” globale?
È già tardi, ma la carbon tax sarebbe uno strumento utile insieme a tanti altri. Ma prima ancora della carbon tax bisognerebbe togliere i miliardi e miliardi di incentivi destinati all’uso dei combustibili fossili. Questo sarebbe un bel passo avanti.
Tra le tante cose di cui si occupa, ci sono le migrazioni climatiche. Secondo l’IPCC, nel mondo, ci sono 32 milioni di rifugiati ambientali a causa dei cambiamenti climatici e sembra che nel 2050 i milioni saranno 200. Non trova che l’accordo di Parigi sotto questo aspetto sia deludente e cosa si potrebbe fare per renderlo migliore nelle prossime COP?
I migranti ambientali, in particolare quelli climatici, sono destinati ad aumentare. Ci sono almeno 2-3 cose da poter fare subito e una di queste è riconoscere i diritti di queste persone. Se oggi si lascia il proprio paese per motivi climatici come l’innalzamento dei livelli del mare e la siccità, queste persone non sono tutelate da nessuna legge internazionale, non hanno uno statuto pensato per loro, come ad esempio c’è l’hanno i rifugiati di guerra. C’è bisogno di una legge che protegga anche i rifugiati climatici. Secondo la mia opinione, non c’è differenza tra chi fugge per via di un terremoto e chi per l’innalzamento dei mari: hanno tutti il diritto di essere assistiti. A parte la prevenzione dei cambiamenti climatici, che è fondamentale, tra le altre cose che si potrebbero fare ci sarebbe un massiccio impegno di risorse per opere e azioni di adattamento. Per esempio, la creazione di una task-force in grado, nel breve, di fornire i primi aiuti ai rifugiati e poi, nel medio e lungo periodo, costruire le strutture necessarie per permettergli di potersi fare una vita lontano dai loro luoghi di origine, sarebbe una buona idea.
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