Seconda settimana di COP27, ossia ventisettesima conferenza ONU sul clima, quella in cui si dovrebbero prendere decisioni: se all’inizio si osava sperare di non fare passi indietro, oggi forse si può sperare anche in qualche minimo risultato in più del nulla. A partire dal fatto che è stato messo all’ordine del giorno un argomento che negli anni non ha fatto altro che slittare, ossia il cruciale binomio “loss and damage” di fronte al quale i paesi ricchi hanno sempre fatto orecchie da mercante. Sarà forse perché è una COP africana, ossia si svolge in un continente dove gli effetti catastrofici del cambiamento climatico non sono una minaccia ma una realtà quotidiana, ma finalmente se ne comincia a discutere. 

Loss & Damage

I 100 miliardi di dollari l’anno di impegno da parte dei paesi ricchi verso quelli in via di sviluppo che furono stabiliti nel 2009 a Copenaghen (e mai dati), comunque, non basterebbero più: secondo nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) il mondo avrà bisogno di oltre 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 per far fronte agli effetti della crisi climatica, che includono siccità, aumento del livello del mare e tempeste più forti.

Non ne parla solo la ministra dell’Ambiente delle Maldive Aminath Shauna (“Per la prima volta viene inoltre discussa la possibilità di una compensazione finanziaria per i paesi più colpiti dai cambiamenti climatici”) o la premier di Barbados Mia Mottley (“solo con una tassa sugli extra profitti delle 15 oil&gas del 10% avremmo 37 miliardi a disposizione per la finanza climatica”). Ma lo fanno anche Germania e la Danimarca, lanciando proprio oggi lunedì 14 novembre lo “scudo globale contro i rischi climatici”, ossia quel Global Shield” in cui i paesi del G7 promettono di proteggere quelli del V20, ossia gli stati più minacciati dal climate change, con “attività nel campo dell’assicurazione e della prevenzione del rischio climatico”. Spiega la ministra federale della cooperazione e dello sviluppo economico Svenja Schulze: “I disastri legati al clima hanno impatti devastanti in particolare sui poveri. Spesso non hanno i mezzi per proteggere se stessi e le loro case, campi o attività commerciali dalle condizioni meteorologiche estreme e possono perdere tutti i loro beni quando si verifica un disastro”. Lo scudo, che poi è un sistema assicurativo globale e non si sa bene cosa esattamente vada a coprire, consentirà alle autorità locali di accedere “più facilmente e più rapidamente all’assistenza di cui hanno urgente bisogno quando il disastro colpisce. Inoltre, lo Scudo mobiliterà ulteriori fondi per soddisfare la crescente domanda di finanziamenti”. Lo “scudo” è attivo, e poco importano le parole del presidente della COP26 Alok Sharma: “Il mondo non è assicurabile”.

Di perdite e danni (loss and damage, appunto) parlano anche gli USA, proponendo una loro ricetta, accolta piuttosto tiepidamente. L’inviato per il clima di Washington John Kerry ripropone il metodo dell’Energy Transition Accelerator, ideato insieme al Bezos Earth Fund e alla Rockefeller Foundation, per far fronte col privato alla mancanza di soldi pubblici sufficienti per le rinnovabili nei paesi in via di sviluppo. La perplessità è che i danni non siano di fatto attrattivi per la finanza privata che deve fare business. 

Molto più apprezzata invece la proposta della prima ministra di Barbados, ossia la Georgetown Agenda che vuole riformare grandi banche e istituzioni finanziarie a partire dalla Banca Mondiale e dal FMI in istituzioni per finanziare la difesa contro il cambiamento climatico: sono ”Istituzioni create a metà del 20° secolo non possono essere efficaci nel terzo decennio del 21° secolo, dice Mia Mottley.

Egitto, affari e jet privati

Mentre a Sharm El Sheikn, secondo France Press, atterrano più di 400 jet privati (ciascuno dei quali con una sola ora di volo consuma un quarto di quanto un cittadino europeo consuma in un anno), anche la ministra egiziana dell’Ambiente Yasmine Fouadparla di ciò che i paesi ricchi devono dare ai poveri (“State certi che l’Egitto svolgerà il suo ruolo per colmare questo divario e portare vanti l’agenda, ma dipende da tutti noi”), e il ministro degli Esteri Il Sameh Shoukry parla di “ricostruire il ‘grande scambio’ al centro dell’Accordo di Parigi”, secondo il quale gli stati più vulnerabili acconsentivano ad aumentare l’ambizione climatica in cambio di un supporto finanziario adeguato. Come dire: abbiamo tagliato le emissioni più di quanto avremmo dovuto, adesso tirate fuori i soldi. La cifra da mobilitare, secondo Shoukry, è di 5600 miliardi di dollari da qui al 2030.  

Che poi, detto da quell’Egitto di al-Sisi che proprio grazie alle fonti fossili è entrato tra i grandi protagonisti della partita energetica internazionale, pare un po’ stonato. 

L’argomento, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, non viene affrontato invece dalla nostra premier Giorgia Meloni. Ma l’Italia (e in particolare Eni, Snam, SACE, stando al rapporto che l’associazione Re-Common ha condiviso a inizio COP) ha affari in corso con l’Egitto, affari fossili di non poco conto, meglio sorvolare.

600 delegati oil&gas

Di sicuro non sorvolano i 600 delegati dell’industria fossile mondiale. Per la prima volta invitati a presenziare ufficialmente a COP27 da un paese ospitante che non fa mistero dell’accordo per vendere gas all’Europa in cambio della sostituzione delle vecchie centrali termoelettriche con energia più pulita, scendono in campo i big di oil&gas e sono tanti, più delle delegazioni dei 10 paesi più colpiti dall’emergenza climatica messe insieme. 

Adel al-Jubeir, ministro saudita per gli affari esteri, spiega candidamente al Financial Times che “l’obiettivo dell’Accordo di Parigi è quello di mantenere il riscaldamento globale a 1,5° C, ma noi non lo vediamo come una discussione sui fossili combustibili… Puoi raggiungere la neutralità del carbonio mentre produci combustibili fossili e lo stiamo dimostrando in Arabia Saudita”. 

Amin Nasser, amministratore delegato della Saudi Aramco, ha elencato la piantumazione di alberi, la tecnologia di cattura del carbonio, il combustibile a idrogeno derivato dal gas e una “economia circolare del carbonio”, o riciclaggio, come soluzioni climatiche.E nel frattempo, durante la COP27, la “giornata della decarbonizzazione” di venerdì 11 ha visto anche un panel sull’inverdimento del settore petrolifero e del gas che ha posto domande come “qual è la tua visione per lo sviluppo delle risorse di petrolio e gas riducendo le emissioni?”.

Come mai questa presenza così massiccia? Un tentativo di spiegazione lo fa Laurence Tubiana, una delle protagoniste dell’Accordo di Parigi: “Non credo che possiamo continuare a dover far fronte a una presenza così schiacciante – ha dichiarato, aggiungendo che “hanno così tanti soldi per fare pubbliche relazioni… Vengono quando vedono che le cose stanno andando davvero male” (per loro). Mia Mottley, premier di Barbados, rivolta alle industrie fossili: “Come possono le aziende oil and gas aver fatto 200 miliardi di dollari di profitti negli ultimi tre mesi e pensare di non contribuire con 3 centesimi per ogni dollaro di profitto a un fondo per i danni e le perdite della crisi climatica?”.

Security egiziana

“Non usate l’app di COP27”, avvertono i governi dei vari paesi ai loro delegati e rappresentanti a Sharm el-Sheikh. Secondo Politico, pare che, il governo di al-Sisi usi quella su Android per ascoltare conversazioni, leggere email e messaggi. I negoziatori e la società civile presente a COP27 sono sotto osservazione: “La situazione sorveglianza sta diventando grottesca: la Germania ha ufficialmente protestato con il governo egiziano. Gli eventi sui diritti umani nel padiglione sono stati filmati, fotografati, i partecipanti egiziani intimiditi”, scrive su twitter il giornalista Ferdinando Cotugno. Secondo Human Rights Watch, le autorità egiziane hanno arrestato dozzine di persone per aver progettato proteste e limitato il diritto di manifestare. Nessun dissenso è consentito. Le misure di sicurezza a COP27 includono l’obbligo di avere telecamere in tutti i taxi e consentire alle agenzie di sicurezza la sorveglianza di conducenti e passeggeri. Aveva forse ragione Greta Thunberg: “Non andrò in Egitto per molte ragioni, ma lo spazio per la società civile quest’anno è molto limitato”. I Friday for Future, però, hanno continuato le loro proteste, guidate dalla giovane attivista ugandese Vanessa Nakate.

+ 1,5° C? Tra 9 anni

L’11 novembre a COP27 viene presentato il Global Carbon Budget. Nel 2022 abbiamo emesso in atmosfera 40,6 miliardi di tonnellate di CO2, di cui 36,6 solo di combustibili fossili. Ora come ora, si stima che supereremo 1,5°C di surriscaldamento globale già tra 9 anni. Per arrivare alla neutralità di carbonio al 2050 dovremmo ridurre di 1,4 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Nel report sullo stato della cryosfera c’è scritto chiaro e tondo che avremo l’artico senza ghiaccio in estate già nel 2050.

L’Emissions Gap Report 2022 del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), ci dice che con gli attuali contributi determinati a livello nazionale (NDC), il mondo va spedito almeno sui 2,8 gradi di riscaldamento globale entro la fine del secolo.

Gli ultimi 8 anni sono stati i più caldi di sempre. 

E nel frattempo, proprio durante COP27, siamo diventati 8 miliardi, saremo tra i 9 e i 12 miliardi a fine secolo, ma è “il primo 10% della popolazione in termini di ricchezza netta ad essere responsabile di circa il 50% delle emissioni di gas serra e rappresenta solo 770 milioni di persone nel mondo, mentre il 50% inferiore, che rappresenta approssimativamente 4 miliardi di persone, ha solo il 12% di emissioni a suo carico”, spiega demografa Raya Muttarak.

“Le raccomandazioni sono chiare – ha commentato Antonio Guterres, segretario generale Onu – Gli impegni per lo zero netto valgono zero senza i piani, le politiche e le azioni a sostegno. Il nostro mondo non può permettersi più greenwashing, fake mover o late mover… La finestra per intraprendere un’azione urgente per il clima si sta chiudendo rapidamente. A meno che i paesi non intensifichino drasticamente i loro sforzi per contrastare la crisi climatica, il mondo dovrà affrontare una catastrofe globale”,

Che fanno i Grandi.

Putin non c’è; la Cina si (Kerry ha incontrato il delegato Xie Zhenhua, per cercare di costruire le basi per un patto di solidarietà sul clima auspicato da Guterres), e anche l’India, che rigira la frittata contro l’occidente: volete fase-down del carbone, ma perché non di tutti i conducibili fossili, allora? Comodo, insomma, mettere al bando il carbone continuando a estrarre tutto il resto. 

Biden si scusa per l’America di Trump che si è defilata dall’Accordo di Parigi e assicura che gli Usa raggiungeranno gli obiettivi di riduzione del 50-52% entro il 2030  e che raddoppierà il fondo per l’adattamento climatico con 150 milioni per l’Africa.

Si attende con grande speranza l’’intervento di Lui Inacio Lula da Silva, neo presidente del Brasile, che annuncerà il nuovo corso delle politiche ambientali e la creazione di una nuova autorità nazionale per il clima per supervisionare gli sforzi di tutti i ministeri e le agenzie per combattere il riscaldamento globale, oltre, pare, che la proposta di ospitare COP30.

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giornalista professionista, è direttore responsabile di Giornalisti nell'Erba, componente dell'ufficio di presidenza FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e membro Comitato Scientifico per CNES UNESCO Agenda 2030. Presidente de Il Refuso a.p.s.. In precedenza ha lavorato come giudiziarista per Paese Sera, La Gazzetta e L'Indipendente. Insieme a Gaetano Savatteri ha scritto Premiata ditta servizi segreti (Arbor, 1994). Collabora con La Stampa.

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